Korn
Requiem
(Ims-Caroline)
nu metal
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I Korn non sono più dei ragazzini, ma ci sono ancora. Eccome se ci sono! Requiem, la loro ultima fatica appena uscita in questi giorni, ci porta in dono una band ancora capace di essere presente in modo consistente, chiaramente discostandosi (ma ormai questa non è una novità) dal sound con cui si fece conoscere a metà anni novanta, dando luogo a quella che venne volgarmente chiamata la rivoluzione del “nu metal”.
Oggi Jonathan Davis non è più il cantante che può scrivere pezzi come Kill You o Blind, perché nella vita si cresce, si matura e si cerca di andare oltre il classico stereotipo a cui i fan sono legati e che, magari, è quello per cui sono riusciti ad essere apprezzati nel mondo.
I Korn, e questa è una cosa che nessuno gli potrà mai rinfacciare, hanno cercato di fare per ogni disco qualcosa di diverso, andando a sperimentare e non rimanendo fossilizzati in una formula che li avrebbe portati, nel tempo, ad essere la parodia di loro stessi.
Oggi, con i membri del gruppo tutti sulla cinquantina e con Fieldy fatto accomodare sull’uscio della porta sino a quando i suoi problemi personali non saranno messi da parte, un disco come Requiem è quello che il pubblico che ha seguito tutta la loro parabola artistica si sarebbe aspettato.
Nove canzoni, tutte dalla durata di tre minuti e mezzo, piene di potenza, ma pregne di una base melodica che, probabilmente, mai era stata utilizzata in maniera così forte dagli americani.
Munky ed Head sono due macchine da riff, mentre il drumming di Ray Luzier rimane uno di quei tesori da preservare da qui all’eternità.
Infine, grazie ad una produzione devastante, si staglia la figura di Davis, l’uomo a cui piacciono i Maneskin, a dimostrazione che anche lui è preso dal gruppo italiano, che ha dato la sua impronta pesante a questo lavoro.
I primi due pezzi, Forgotten e Let The Dark Do The Rest, sono il manifesto dei Korn del 2022, perché hanno dei ritornelli strepitosi, senza che si scada nella bieca commercialità.
Basterebbero solo queste due canzoni a consigliarne l’acquisto, anche se il livello rimane alto con la successiva Start The Healing, che è pure il primo singolo dell’album. Più industriale, invece, è Lost In The Grandeur, mentre Disconnect ha degli squarci melodici malati, tipici del marchio di fabbrica della casa. Ci sono anche tracce di Issues, uno dei loro capolavori, in Hopeless And Beaten che potrebbe piacere anche ai seguaci della prima ora. Nel finale si casca sempre bene. Ci sono tanti momenti di puro Korn Stile (My Confession), anche se è l’ultima del lotto, al secolo Worst Is On The Way, a fare capire che i Korn ci sono ancora. Davis sciorina in tre minuti tutte le sue fasi storiche di cantato e la band gli va dietro che è un piacere. Insomma, nonostante le crisi, i lutti personali, gli allontanamenti, i cambi di line up, le accuse di non essere più loro, i Korn ci sono. A testa alta e con una dignità professionale forte e verace. Requiem non sarà un disco che cambierà la storia del rock (anche perché sono anni che aspettiamo da chiunque il nuovo Nevermind), ma è un lavoro che sta in piedi da solo senza problemi, perché è tosto, melodico e pieno di vita, nonostante il titolo da de profundis.
Requiem
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