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Katelyn Tarver: recensione di Quitter

La cantautrice californiana Katelyn Tarver si rimette in gioco con il suo secondo album Quitter, nel segno di una malinconica freschezza indie-folk e con tematiche intime dal taglio autobiografico.

Katelyn Tarver

Quitter

(Nettwerk Music Group)

indie-folk, cantautorato folk, dream folk, emo-folk

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A distanza di tre anni dall’esordio discografico con Subject To Change, disco che ha riscosso consensi da parte di NPR, SPIN e Rolling Stone US, la cantautrice californiana Katelyn Tarver torna in scena con il sophomore album intitolato Quitter, edito per Nettwerk Music Group, con la produzione di Scott Efman e Chad Copelin.

In questo secondo capitolo autorale, che si pone non solo come quello di un percorso soggetto ai cambiamenti personali, ma anche come presa di coscienza nei confronti delle molteplici complicanze della vita, la folk-singer originaria della rurale Glenville riesce a confezionare un resoconto dei suoi primi trent’anni, nel dovuto bilancio tra somme e sottrazioni, tra passato, presente e incognite future, attraverso un piano narrativo dal taglio autobiografico che si riflette nei contenuti della release.

Sulla scia di un masticare sensibilità emo-folk alla Phoebe Bridgers, Katelyn Tarver mette a fuoco il suo marchio cantautorale – intenso e confidenziale – andando a setacciare gli smarrimenti emozionali, le delusioni difficili da metabolizzare, gli imprevedibili declivi della normalità quotidiana e i confini di una nostalgia che cerca conforto e solidarietà nella romantica bellezza della malinconia, oppure nel tenero ricordo di un ingenuo imbarazzo da aspirante popstar (Japanese Cafe).

Il linguaggio strumentale di Quitter si raccoglie attorno a una selezione di undici canzoni nel segno di una freschezza indie-pop contemporanea, dove melodie vocali intime si immergono in un sobrio e arioso alt-folk di chitarre dal tenore bucolico, attingendo a misurati arredi di elettronica retrò anni 80 e combinando sofisticati riverberi di ballad dream-folk a motivi country-pop dal carattere più esuberante, così da sottolineare ed enfatizzare una densità atmosferica flessibile, luccicante e ovattata.

Sotto l’aspetto tematico, con un velo di tristezza e disillusione, ma anche con maggior consapevolezza del proprio essere, Katelyn Tarver prova a ripercorrere le esperienze accumulate nel tempo e a dare una forma testuale a tutte quelle esperienze di crescita, ripensando alle ansie vivide delle aspettative e all’amarezza di non essere stati all’altezza di certe situazioni, al rapporto nocivo tra autostima e finzione, alle sliding doors della vita e ai lati più oscuri e umanamente meno nobili che purtroppo a volte mostriamo.

Secondo Katelyn Tarver, il nuovo proposito è smettere di inseguire forzatamente l’approvazione degli altri e talvolta mostrarsi meno duri con se stessi e con le proprie decisioni, rinunciando a chi pensavamo di dover essere (“giving up on who I thought that I had to be”) e al pensiero di poter tenere ogni cosa sotto controllo, accarezzando l’idea che, in fondo, abbiamo perso soltanto ciò di cui non avevamo bisogno (“looking back, I only lost what I didn’t need”).

La stessa Katelyn Tarver si domanda: su cosa dovremmo concentrarci per rendere bella la vita? È sufficiente amare qualcuno e guadagnare un sacco di soldi? Oppure vivere per qualcosa di più grande? Continuare a inseguire un brivido o desiderare ciò che è familiare?

Sappiamo bene che guardarsi indietro comporta sempre dei rischi, tra cui quello di sopportare il peso dei rimpianti e della nostalgia. Insomma, che senso ha tutto questo vivere, tutto questo sbattimento, se non puoi tornare indietro e prenderlo? Al netto dei classici quesiti esistenziali, resta comunque ciò si è fatto di buono, come punto da cui poter ripartire e modificare le prospettive future.

 

facebook/katelyntarver

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