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Judas Priest: recensione di Invincible Shield

Invincible Shield è il 19esimo album in Studio dei Judas Priest: "solo" un gran bel disco, per tenere alta la bandiera dell'heavy metal.

Judas Priest

Invincible Shield

(Columbia)

heavy metal, hard rock

_____________

Diciannovesimo album in Studio per i Judas Priest. Ventesimo se si considera il Live Unleashed in the East … mmmmhhh … troppo cattiva?…si scherza Rob, qui ti si vuole un bene che nemmeno ai parenti certe volte.

Chiariamo subito che non è Firepower. Firepower è l’anomalia. Invincible Shield è solo un Gran Bel Disco. Firepower invece è l’anomalia. Fa parte di quei dischi, e ne hanno piazzati uno per decade, che sfondano ogni scala di valutazione. Lo avevano fatto con Sin After Sin, British Steel, Painkiller e Angel of Retribution, rispettivamente nei 70s, 80s, 90s e 00s. E appunto con Firepower nei 10s. Va bene, negli 80s facciamo due. Anche Screaming For Vengeance era uno di questi, ma tutto il discorso sarebbe risultato un pochino meno epico. E quando si parla dei Priest, non è accettabile nulla di meno di: Epico.

I 5 dischi di cui sopra sono tutti dischi lontani e diversi tra loro, con un unico filo rosso a collegarli. Un filo rosso come il sangue, teso e indistruttibile come il metallo che sorreggeva e, appunto, fatto della medesima sostanza.

L’Heavy Metal si è evoluto in questi 50 anni con questi dischi. Tutti dischi in grado di portare all’attenzione un nuovo standard compositivo e stilistico. Tutti dischi che puoi prendere, se devi spiegare molto velocemente ad un alieno appena sceso sulla terra, cosa sia successo in ambito Metal negli ultimi 50 anni.

Firepower è l’anomalia perché davvero nel 2018 non ci si poteva aspettare che ci riuscissero di nuovo; tirare fuori un album così al di sopra della media, fresco, pronto dall’ascolto zero, senza mezzo passo falso, a fuoco, moderno e ispirato.
Tutti i dischi citati sopra sono nati quando hanno dimenticato cosa avevano fatto, cosa si faceva in giro e forse anche i loro nomi. Solo puro genio, un paio di riferimenti base e spinta verso un mondo nuovo.

Gli altri lavori, alcuni più buoni e altri meno buoni, andrebbero astratti in altra maniera.

Immaginate di essere i curatori di un archivio sterminato e di essere in qualche maniera l’archivio stesso; esso esiste e si regge sopra le vostre opere che sono le più importanti, eccezion fatta per quelle dei padri fondatori prima di voi… che venivano dalla vostra stessa città…
Immaginate di essere talmente un punto di riferimento che tutte le opere di tutti gli altri artisti presenti in archivio, siano in qualche modo collegate a tutte quelle vostre.
Immaginate che in modo alquanto deferente, ogni artista dopo di voi vi venga a consegnare il proprio lavoro a mano, in attesa che lo collochiate nel punto giusto, dove apparterrà alla memoria del tempo.
Immaginate che per ogni lavoro, non importa la lingua, il momento e il posto dove è nato, l’intenzione e lo stile, voi siate in grado di leggerlo perfettamente perché la lingua madre di cui è fatto l’avete scritta voi.

Se avete immaginato bene allora saprete che sarete in grado di fare qualsiasi cosa vogliate con tutta questa arte, perché la padroneggiate totalmente. Di più. Voi siete l’arte stessa. Sarete in grado di fare tutto quello che vorrete e tutte le volte che vorrete. Sarete in grado di prendere tutto quello che vi orbita intorno e farlo vostro, come se fosse vostro.
E in ultima analisi, potrete essere anche tutti quelli che sono venuti dopo, laddove loro non riusciranno mai ad essere voi.

I dischi dei Priest che non sono quelli citati sopra, sono esattamente questo. Espressione, più o meno eccelsa a seconda dei casi e del periodo storico, di un bagaglio culturale e artistico immenso che, mattone su mattone, hanno dato una mano ad alzare il tempio del Metal. Alcuni dischi reggono meglio, altri peggio. Alcuni si avvicinano a quelli intoccabili di cui sopra, altri meno, alcuni per nulla.

La buona notizia è che Invincible Shield è di quelli che regge molto bene.

Immaginate i Priest. Ormai settantenni e senza l’obbligo di dover dimostrare più nulla, che vadano a spasso in questo enorme archivio e abbiano solo l’imbarazzo della scelta su come ammazzare la giornata.
Li immagino passeggiare e soffermarsi qualche secondo in più davanti allo scaffale che ospita Painkiller. Fare qualche passo avanti scorrendo l’indice sull’ebano lucido della mensola, per fermarsi di colpo e dire “perchè no?”.
Tornare indietro senza nemmeno voltarsi e fermarsi di nuovo dove riposa il disco definitivo della decade dei 90s.
Fissare con attenzione il centauro che domina la copertina. Valutare se c’è ancora qualcosina da dire. Forse no. Ma ancora “perché no?”
Così nasce Invincible Shield. La prima parte del disco si nutre e respira a pieni polmoni quello che è stato, tra i loro capolavori, forse il più assoluto.
La seconda parte del disco respira di più l’aria di Firepower (gloria, gloria, gloria).
Fine del disco? No. Una spruzzatina di Defenders of the Faith e q.b. di strutture meno lineari e scontate che facevano capolino nei loro lavori dei 70s, quando di moda andava il Prog.
In tal senso questo lavoro risulta decisamente più complesso in molti punti, rispetto al precedente Firepower, meno immediato e ahimè anche meno fresco e a fuoco.
Questo, unito al riferimento pesante ai lavori precedenti di cui sopra – quindi in definitiva davvero nulla di nuovissimo – ne decreta il non ingresso negli intoccabili.

Più di mille parole vale l’ascolto della traccia di apertura Panic Attack. In alcuni punti drammaticamente simile a Painkiller: vedi intro e ancora di più il bridge da 2:20 a 2:38. A seguire, laddove Painkiller lasciava il posto all’assolo del secolo, qui troviamo una nuova sezione articolata e poi infine i soli più arzigogolati e complessi. Sezione finale semplicemente da infarto con, ancora un riferimento alla sezione finale di Painkiller, e tutti a casa.

The Serpent and the King viaggia di più al ritmo di Firepower e infatti risulta più fresca e temibile. Inutile raccontarla: pezzone Meraviglioso da Just Push Play sulla fiducia; forse il migliore dell’album.

La title track dopo una intro da far venire giù i cancelli del Valhalla, vive anch’essa in quella terra di confine che giace tra la furia di Painkiller e l’immediatezza di Firepower.
Nettamente più articolata di entrambe e in qualche modo, con una sua epicità, rimandabile al periodo di Defenders of the Faith e comunque spiccatamente 80s. C’è anche spazio per armonizzazioni alla Maiden maniera. Di nuovo, loro possono essere tutti, ma nessuno riesce ad essere loro.

The Devil in Disguise risulta maligna e oscura come da titolo e scivola via bene, grazie ad un ritornello semplice ed efficace che esalta il registro medio di Halford a meraviglia. A tratti una A Touch of Evil pensata nello stile di oggi. A proposito di Rob Halford: veramente a palla di fuoco su tutto il disco, a differenza di Firepower dove risultava leggermente più “misurato”. Ottimo anche l’assolo che si stende sul mezzo-tempo della canzone e finezza di Scott Travis che con lo splash sottolinea i levare di una manciata di battute. Davvero Notevole.

Altro mezzo-tempo con Gates of Hell che, si sente, ha ancora in sovrimpressione l’onda sonora degli analoghi episodi presenti in FirepowerNever the Heroes e No Surrender – senza però godere della stessa freschezza e successo. Comunque gira e allo stadio farà un figurone.

A seguire Crown of Horns che rimanda di nuovo a Defenders così come, addirittura, ai Sabbath della Dio-Era (sarà un un caso il titolo?). Un pezzo che passa in modo un po’ troppo interlocutorio e che addirittura finisce con un fade out come non si sentiva da anni.

Painkiller torna a farsi sentire in tutto il suo eco mai spento con As God in My Witness, che va a ripescare pensate un po’, dalle parti di Leather Rebel ovvero uno dei pezzi più micidiali della fase 90s dei Priest. Se conoscete Leather…null’altro da aggiungere se non devastante.

La seconda parte del lavoro apre con Trial By Fire che respira di più, per larga parte, le atmosfere dell’ultimo Firepower. E così un po’ per tutte le tracce restanti a parte qualche episodio. Pezzo godibile, ancora mezzo tempo, che si lascia seguire molto facilmente per lasciare il posto ad Escape from reality.
Questa è invece, forse, il pezzo più interessante di tutto il lavoro. Lenta, cattiva e morbosa alla Sabbath maniera, stavolta Ozzy-Era. Non a caso, e per fortuna non sono il solo a sentirlo, nella parte centrale Rob Halford mette in atto un’autentica metamorfosi della voce arrivando ad assomigliare tremendamente a Ozzy. Davvero un pezzo che desta l’attenzione.

Sons of Thunder è ancora un mezzo tempo senza troppo pretese, a confronto con quanto già sentito, che defatica e che punta come Gates of Hell sia agli episodi di Firepower che al coro da stadio. Pezzo sopra la sufficienza ma senza sussulti o rischi.

Giants in the Sky punta invece dalle parti di Firepower con più successo. Incedere maestoso alla Children of the Sun e testo che esprime il più totale rispetto e devozione verso i protagonisti del Metal che sono passati oltre l’orizzonte degli eventi. La sezione centrale, con chitarra classica e voce accorata, impreziosisce il pezzo, così come l’urlo finale che fa accelerare di qualche battito il cuore. Immenso Rob, settantadue anni, Signore e Signori.

Fight of Your Life, di nuovo, è figlia di Firepower e in qualche modo, moltissimo alla lontana in qualche passaggio, degli AC/DC del periodo di Ballbreaker; quindi più Hard che Heavy pur sempre alla maniera dei Priest. Passa, ma davvero nulla di eccezionale.

Vicious Circle e The Lodger chiudono il lavoro in un modo un pochino ripetitivo. La prima ennesimo mezzo-tempo. La seconda, va detto, interessante perché stramba e dissonante ma troppo poco sviluppata. Col senno di poi magari eliminare la prima e dilatare la seconda poteva portare una ventata di stranezza inquietante e lasciare l’ascoltatore con qualche curiosità in più. Ma i Priest hanno scelto così e quasi mi pento di aver appena scritto quello che ho appena scritto. Lesa Maestà.

Nel complesso davvero un gran bel disco. Ne lascia dietro parecchi, tra i quali Nostradamus, Redeemer of Souls e alcune divagazioni discutibili degli 80s. Soffre – a differenza di Firepower – della presenza di alcuni pezzi meno efficaci, e un pochino riempitivi. Aspetto del tutto assente nel suo predecessore.

La produzione del suono è eccellente, a tratti sorprendentemente vicina a quella di Painkiller, ma un gradino sotto quella di Firepower, più secca e decisa. Halford è in formissima (avrà il suo bel da fare in concerto) e fa piacere che Tipton, nonostante la tremenda battaglia che stia combattendo, abbia preso parte al processo creativo. Richie Faulkner si conferma ancora una volta il chitarrista giusto al posto giusto. Ian Hill inossidabile e Scott Travis – forse la più grande benedizione che poteva capitare ai Priest sul finire degli 80s – immenso as usual.

Ultima nota a margine, copertina molto bella; non la imboccavano così bene da British.

Invincible Shield non è al livello di Firepower dei 10s o Angel of Retribution dei 00s e men che meno di Painkiller dei 90s ed è infine lontano anni luce da Sin After Sin e British Steel. Ma insomma è il 2024… ci sono altri sei anni per assestare ancora una volta quel colpo tremendo e definitivo anche a questa decade. Per ribadire ancora una volta che grandi come loro, nessun altro.

 

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