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Jack White: recensione di Entering Heaven Alive

A distanza di pochi mesi dall'uscita di Fear Of The Dawn, Jack White pubblica il suo nuovo album Entering Heaven Alive: un affresco visionario e intriso di trovate armoniche dal taglio bucolico, che oscilla tra le misteriose inquietudini del mondo fisico e la sensibilità umanistica di un moderno Dante Alighieri.

Jack White

Entering Heaven Alive

(Third Man Records)

folk acustico, blues, elettronica, motown soul, funk R&B, gypsy, jazz, bossanova

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A distanza di quattro mesi dalla pubblicazione di Fear Of The Dawn – rilasciato la scorsa primavera – il polistrumentista statunitense Jack White presenta il suo nuovo album intitolato Entering Heaven Alive, edito per la sua stessa etichetta Third Man Records e anticipato dall’uscita dei singoli If I Die Tomorrow e Love Is Selfish.

Un doppio vestito autorale nello stesso anno solare per il musicista di Detroit (già membro fondatore di White Stripes, The Reconteurs e The Dead Weather), da cui traspare tutto il suo eclettismo creativo – diciamo anche con un certo delirio bulimico di onnipotenza – e un’indipendenza commerciale d’altri tempi, fuori dagli schemi dell’attuale sistema discografico, che fonde il suo collante sonoro nella ricerca strumentale per la convivenza tra contaminazioni di natura eterogenea.

Quella di Jack White si pone come una visione autonoma e talvolta incosciente, che si riflette – con rinnovata consapevolezza artistica e una maturità emozionale ancora più solida e autorevole – all’interno di un maxi setaccio di suoni e tematiche in contrapposizione tra di loro, ma che di fatto provengono dallo stesso grembo percettivo, da un unico organismo, da una sola essenza spirituale, come se ci trovassimo ad osservare negativo e positivo della stessa fotografia.

Se da un lato Fear Of The Dawn ci aveva mostrato la superficie epidermica e cromaticamente più abrasiva e vivace delle sue emozioni, in relazione ai cambiamenti, tra debiti ancora aperti con il passato, l’inafferrabile caducità del presente e tutte le incognite legate a un futuro sempre più indecifrabile, dall’altro la struttura acustica e sinfonica di Entering Heaven Alive – racchiusa in undici canzoni, tra cui la “gentle version” di Taking Me Back – ci introduce in una dimensione esistenziale completamente differente, quasi fiabesca: un affresco introspettivo, chiaroscurale, visionario e intriso di trovate armoniche dal taglio bucolico, che oscilla tra le misteriose inquietudini del mondo fisico e la sensibilità umanistica di un moderno Dante Alighieri.

Così, meditando e interrogandosi su quei dilemmi irrisolti che vanno oltre la tangibilità del nostro passaggio terreno – “È possibile che le buone azioni fatte in vita vengano cancellate da una sola cattiva? Serviranno ad evitare l’oscurità dell’inferno?” – anche Jack White sogna di entrare in Paradiso da vivo, rievocando quel genere di arte interiore e multisensoriale che si riassume in quell’immagine in bianco e nero raffigurata in copertina e si sviluppa attraverso i dolorosi tasselli che compongono il mosaico dell’esperienza, generando un crescendo d’enfasi – profondo, intimo e sfocato – che alla fine si riversa nel vissuto istantaneo, nelle irreversibili idiosincrasie della quotidianità e in quei tormenti dell’anima dove il rimorso, in attesa dell’aldilà e per convenzione, sposa le scorciatoie dell’assoluzione per fuggire dalla realtà.

Con il chiaro intento di rigettare certe dinamiche effimere della contemporaneità e di divincolandosi dal velenoso magnetismo delle masse, l’ex White Stripes si esibisce per le vie notturne di Manhattan come un cupido pazzo ed ebbro di whisky che inveisce contro l’avidità dell’amore, contro l’egoismo di questo sentimento che da sempre determina le nostre vite, le nostre relazioni, a prescindere dal valore delle ricchezze materiali.

 

Jack White utilizza tutte le sue frecce stilistiche, ormai più che riconoscibili, insieme a quel desiderio irrefrenabile di voler rinfrescare la tradizione del rock del passato, consolidando quel legame indissolubile – come un bradipo abbracciato a un albero – all’interno di uno spazio intermedio tra cantautorato folk-southern del Midwest, brit-pop orchestrale, certa teatralità dei musical di Broadway ed atmosfere solitarie e malinconiche che rimandano a Bob Dylan e Neil Young.

Un quadro folk acustico dalle striature brumose e rurali made in Nashville, che si arricchisce di partiture d’archi e si appoggia al sostegno ritmico dei sintetizzatori, tingendosi di immancabili riff blueseggianti, movimenti soul-funk di memoria Motown, arrangiamenti corali alla Beach Boys (Help Me Along), psichedelia disco funk jazzata (I’ve Got You Surrounded (With My Love)), ritmiche latinoamericane di bossanova (A Madman From Manhattan), speziature gipsy che si mescolano a influenze stonesiane (A Tip From You To Me), fino a spaziare tra ballad zeppeliniane (Love Is Selfish) ed echi beatlesiani – sia sponda Paul McCartney che John Lennon, giusto per non scontentare nessun fan delle due fazioni – rispettivamente in Queen Of The Bees e Please God Don’t Tell Anyone.

Dunque, alla fine di questo viaggio onirico e confessionale tra le varie tracce di Entering Heaven Alive, non resta che attendere che Jack White faccia ritorno da quel luogo mistico-letterario in cui passato e presente si accavallano, dove sogno e realismo si confondono. Nel frattempo – cercando conforto nella tassidermia di ricordi remoti e sconfinati come quei territori di campagna che profumano di pane fresco, zollette di zucchero di canna, caffè caldo e toast imburrati – ci prenderemo cura delle cose che condividiamo, lotteremo per loro, e lo faremo senza guardarci indietro, riuscendo finalmente a costruire un nuovo percorso e a trasformare le paure in coraggio.

facebook/jackwhite

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Andrea Musumeci
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