Iqonde
Kibeho
(Grandine Records)
math rock, noise, post-rock, tribale
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Pochi generi musicali sono in grado di riempire il silenzio assordante della contemporaneità, sempre più distratta dai beni effimeri, e di creare una suggestiva e immaginifica spiritualità come il math rock.
Questo è, in linea di massima, il linguaggio espressivo ed evocativo ascrivibile a un’idea di arte universale che, attraversando un intero continente, dai villaggi di capanne di paglia del Ruanda fino alla multietnica area metropolitana di Bologna, converge nel ventre sonico di Kibeho, album d’esordio discografico del trio math rock bolognese Iqonde, edito per Grandine Records.
“Nostra Signora di Kibeho” è l’appellativo con cui i cattolici venerano la Vergine Maria in seguito alle apparizioni, le prime del continente africano, che si sarebbero verificate nel villaggio ruandese di Kibeho, a partire dal 28 novembre 1981 e nel corso dei mesi successivi.
Lo spartito compositivo degli Iqonde, progetto nato nel 2019 dall’urgenza di una esplorazione sonora dai vasti orizzonti sperimentali, trae ispirazione proprio da quelle esperienze mistiche e trascendentali ruandesi, e dall’importanza di riconoscere e attribuire un significato esistenziale alla simbologia che si cela dietro la fenomenologia dei numeri doppi.
Al di là delle convenzioni della forma-canzone, con sei tracce inedite della durata di 26 minuti, gli Iqonde mettono in scena la loro “vie en rose” sciamanica, facendo confluire tutte le proprie influenze musicali in un pentagramma spiraliforme intricato e rigorosamente strumentale: una jam session catartica, polifonica e animalesca che profuma di Africa e di bile tossica post-industriale, in cui si fondono le irruenti e schizofreniche distorsioni oblique del noise rock e le cuspidi geometriche spigolose, metronomiche, millimetriche, robotiche, abrasive e angolari del math rock.
Kibeho è una grandine di suoni math rock, al cui interno ritmiche serrate (“iquonde”, in lingua zulu) al kerosene, beat granitici e stratificazioni psichedeliche, dense, dissonanti e muriatiche si alternano, in maniera assolutamente imprevedibile, ad atmosfere dilatate, smaltate, corpose, sincopate e tempestose.
Un ecosistema eterogeneo che, a dispetto delle canoniche dinamiche armoniche del rock, mette insieme un rituale di trame chitarristiche ripetute ossessivamente in loop, tra danze tribali dei territori subsahariani, improvvise frenate e accelerazioni, inaspettati cambi di registro stilistico e le distensioni rarefatte del post rock, che in parte potrebbero rievocare quel verbo primordiale e irrequieto attribuibile a realtà quali i concittadini Three Second Kiss, i veneti Nairobi, gli Shellac di Steve Albini e gli americani Don Caballero.
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