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New York Horns: intervista a Chris Anderson e John Isley

Nell'album omonimo dei New York Horns si ascolta dell'ottimo jazz ma anche del soul e del blues con qualche appena accennata venatura rock. Lo abbiamo ascoltato, recensito e ce lo siamo fatto raccontare dagli autori

New York HornsUn noto reporter e critico di Rolling Stone della fine degli anni Ottanta era solito dire “Puoi prendere i membri di una qualsiasi heavy-metal band, li fai bere, li metti in un bar e suonano il blues”. Parafrasandolo si potrebbe affermare che, se prendi i membri di qualsiasi rock-blues band, li fai bere e li metti in un bar, sicuramente suoneranno…

Ecco, è qui che viene il difficile e le certezze si sfaldano. Perché in questo album omonimo dei New York Horns (che segue l’EP Tunnel Vision), si ascolta dell’ottimo jazz ma anche del soul e del blues con qualche appena accennata venatura rock, ma di quel rock che sa di club newyorchese con i tavolinetti rotondi tra fumo di sigarette, olive e margarita in qualche seminterrato del Greenwich Village.

Ma andiamo con ordine. Chi sono i New York Horns? Chris Anderson alla tromba, John Isley al sax e al clarinetto, Neal Pawley al trombone e voci, meglio conosciuti per essere la sezione fiati di Southside Johnny & The Asbury Jukes, la storica rock-blues band del New Jersey. Altri due membri dei Jukes hanno collaborato a questo progetto, Jeff Kazee (tastiere) e Glenn Alexander (chitarre e mandolino), insieme a Shawn Pelton (batteria e percussioni) e a Tony Tino (basso).

Il lavoro si apre con una cover di KT Tunstall (cantautrice britannica da oltre 5 milioni di copie vendute), Black Horse and The Cherry Tree, stravolta da ritmiche tra il latino-americano, Youssou N’Dour e certe esplosioni del secondo Paul Simon.

Certamente degna di nota Hey Good Lookin di Hank Williams con assoli di sax, chitarra e Hammond, e Song For Levon (composta da Anderson e Isley per Levon Helm, celebre musicista statunitense scomparso nel 2012) che vede Southside Johnny ospite d’eccezione con una suggestiva performance all’armonica.

Can’t Stand To See You Cry, composta e cantata da Jeff Kazee, vola in una dimensione di campi di more che è totalmente fuori portata per molti artisti anche più quotati ed è impreziosita da una performance vocale la cui intensità mi ha rimandato allo struggente Lou Reed di Perfect Day, pur trattandosi di due brani molto distanti tra loro.

È classe allo stato puro e fuori da ogni logica commerciale. Questa musica sa talmente di genuinità e spontaneità che verrebbe voglia di acquistare dieci copie del CD per farne altrettanti regali di Natale da distribuire agli amici, ma solo a quelli più cari.

Uno dei miei pezzi preferiti è 78 Below e mi azzardo a dire che la chitarra in sottofondo, quando suona alcune semplici ma intense note, mi fa sentire come quando non sono in vena di romanticismo e le mie cuffie sputano a tutto volume uno dei sound di chitarra più belli che abbia mai sentito, quello di Scott Gorham in Emerald dei Thin Lizzy. Sono perfettamente consapevole che il paragone è più che audace –o, se preferite, una provocazione bell’e buona- ma è una questione di EMOZIONI e nient’altro. Non so se sono capace a trasmetterle perché, purtroppo, le parole non possono catturare i suoni. Ma, se sono abbastanza fortunato, in qualcuno scoccherà la scintilla che gli farà poggiare la puntina su un disco, ascoltare una nuova canzone e pensare: “quel critico è un bastardo ma va bene così, perché questa musica è davvero fantastica!”.

L’album scivola via tra mille trovate di musicisti eccezionali che appaiono a loro completo agio come se stessero suonando in canottiera e pantofole nel salotto di casa, per concludersi con Nothing Left To Say, cantata da Christine Ohlman (nota per essere la solista della band del Saturday Night Live), che sembra catapultarci a New Orleans. Ecco, l’ho nominata la città di Bourbon Street, anche se mi ero seriamente ripromesso di non farlo.

Ho provato a chiarirmi le idee scambiando quattro chiacchiere con Chris Anderson e John Isley.

La cosa che mi ha sempre affascinato maggiormente dei musicisti è cercare di capire cosa colpisce la loro sensibilità al punto da ispirarli. Una discussione con la moglie, le parole di uno sconosciuto al bar, i ricordi della loro infanzia, un cucchiaino da tè di plastica o cos’altro? Ascoltando questo album sembra di guardare nelle anime dei musicisti attraverso un oblò, come in quegli acquari che ti fanno passare in mezzo alle vasche con i pesci tutt’intorno. Forse, paradossalmente, è proprio per questo che è difficile etichettarlo, non trovate?

CHRIS: Sia io che John amiamo suonare diversi stili di musica. Non volevamo limitarci ad un genere preciso ma volevamo che il CD fosse coerente. È per questo che abbiamo deciso di creare una vera band. Proprio come in un buon pasto i sapori possono essere diversi ma amalgamarsi bene. Riguardo all’ispirazione be’, arriva sempre dalle emozioni, di solito non da quelle buone.

JOHN: E’ una domanda interessante, una di quelle sulle quali rifletto parecchio come musicista e compositore. Da dove arriva l’ispirazione? Personalmente la trovo in molti posti e da una molteplicità di fonti. Spesso ascoltando la musica di qualcun altro. E’ qualcosa che si muove nella mia creatività. Mi piace anche scrivere cose che dipingono immagini di persone, cose e posti che ho visto. Little Miss Thing l’ho scritta osservando mia figlia, che allora aveva 3 anni, mentre ciondolava per casa con quell’aria sempre felice e vivace. Un’altra idea mi è venuta in sogno, già perfettamente sviluppata. Tutto quello che ho dovuto fare è stato alzarmi, andare al piano e metterla su carta. La musa si presenta nei momenti e nei posti più strani. Ma arriva SEMPRE da un’emozione: amore, paura, tristezza, solitudine. Questo disco è stato un vero e proprio sforzo d’amore per noi. Io e Chris abbiamo lavorato insieme per quasi 20 anni, quindi riusciamo a comprendere fino in fondo i nostri rispettivi punti di forza e le nostre debolezze. Lavoriamo come una squadra e abbiamo una fantastica sinergia quando si tratta di comporre e produrre musica. Tutte le persone coinvolte nella realizzazione di questo disco sono allo stesso tempo nostri amici e musicisti che rispettiamo e con cui ci piace davvero suonare insieme. Tutto il progetto è stato affrontato da una prospettiva di amore, fiducia, e con l’idea comune di fare il miglior disco possibile.

Devo confessarvi che, pur non essendo il mio genere preferito di musica, ho amato immediatamente questo CD -e sicuramente lo propinerò a tutti quelli che verranno a cena a casa mia nei prossimi mesi- perché, oltre a creare la giusta atmosfera, ha quel sapore di party o di jam session tra vecchi amici che si ritrovano in un piccolo club e suonano quello che gli pare…

CHRIS: Il disco ha delle sovra incisioni ma la maggior parte è stato realizzato in 2 giorni in cui ci siamo ritrovati tutti insieme in studio. Ecco perché suona come una jam session. Una di quelle registrate molto bene. Questi musicisti sono una famiglia, abbiamo lavorato insieme in così tante circostanze che c’è una fiducia totale che crea spontaneità.

JOHN: È STATO un party! Ci siamo divertiti tantissimo. Ci sono state certamente tensioni e disaccordi qua e là, ci sono sempre in un gruppo di persone fortemente motivate, intelligenti e creative. Ma non c’è mai stata rabbia. Il risultato finale è certamente migliore della somma delle sue parti, e ne siamo davvero orgogliosi. Personalmente sono stato molto commosso e motivato dalla partecipazione di un gruppo di musicisti così talentuosi, ancora di più se penso alla fortuna che ho di poter contare su questi ragazzi sia come colleghi che come amici. Così, con la massima autenticità, ci divertiamo a suonare insieme, e lo facciamo in diverse band e in diversi progetti, non solo in questo.  

C’è qualche canzone alla quale vi sentite particolarmente affezionati?

CHRIS: La mia preferita cambia (sono felice di dirlo). Ognuna ha avuto il suo momento. Attualmente è Can’t Stand To See You Cry.

JOHN: Cambia settimanalmente. E’ come se le canzoni fossero i nostri figli e ognuna ha i suoi punti forti e deboli, sai com’è no? E’ difficile scegliere, perché in questo album c’è una varietà talmente straordinaria di musica che la scelta non può che dipendere dal mio umore. Come Chris, in questo momento sto riscoprendo Can’t Stand To See You Cry, ma sono molto fiero anche di Little Miss Thing, perché mi fa pensare a mia figlia.

Ho un paio di curiosità, spero mi perdonerete l’irriverenza. Mi stavo chiedendo se la scrittura delle canzoni ha richiesto molto tempo e se, per gli arrangiamenti, avete avuto qualche discussione.

CHRIS: Io e John abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto circa 2 anni fa.

JOHN: Sì, io e Chris ci abbiamo lavorato negli scorsi due anni, di cui uno senza sosta, prima di coinvolgere la band. I germi che hanno originato parte del materiale covavano in noi da quasi QUINDICI anni! Abbiamo avuto la possibilità di suonare una serie di concerti a New York nell’estate del 2013. Abbiamo messo insieme la band e siamo stati fortunati ad aver avuto la possibilità –e il pubblico- per sviluppare i brani. Questo ci ha aiutati ad inquadrare meglio i pezzi, ad arrangiarli, e a definire il concetto che sarebbe poi diventato l’album. La cosa buffa è che delle demo originali solo quattro canzoni sono sopravvissute e finite sull’album! Abbiamo scartato e riscritto moltissime cose durante il cammino.

Una domanda rituale devo farvela per forza: dopo il bellissimo show dell’anno scorso all’OCA di Milano con gli Asbury Jukes, avremo di nuovo la possibilità di sentirvi suonare in Italia?

CHRIS: I Jukes avevano in programma di suonare in Italia questa estate ma poi la cosa è sfumata. Ci piacerebbe venire con i New York Horns. Conosci un promoter?

JOHN: Pienamente d’accordo con Chris. Mi piacerebbe molto tornare in Italia! E’ uno dei miei Paesi preferiti e non riesco ad immaginare niente di meglio che portarci i NYH per qualche show. Stessa cosa con Southside Johnny, c’è sempre la speranza di tornare oltreoceano per altri concerti. Credo che accadrà, ma onestamente non so dire quando.

Vi faccio un’ultima domanda che vi apparirà stupida fino a quando non leggerete l’articolo per intero (vi mando la traduzione via email così potrete insultarmi stesso mezzo): se prendete i membri di una rock-blues band, li fate bere e li mettete in un bar, cosa suoneranno?

CHRIS: Il blues. Può essere rock, può essere soul, può essere jazz ma, credimi, gira che ti rigira si torna sempre al blues.

JOHN: Qualsiasi cosa! Puoi prendere indifferentemente i Jukes di Johnny o i New York Horns, metterci in un bar con qualche drink e un po’ di tempo libero, e noi suoneremo quello che più ci piace nel modo che più ci piace, e porteremo il pubblico con noi in questa corsa. Questo è il motivo per cui la gente torna a sentirti suonare ancora ed ancora. La gioia che provano, che poi portano a casa con loro, è la NOSTRA gioia nella creazione della musica. E’ l’onestà di amare il momento e amare la musica che attira la gente e la tiene lì. E sì, si torna SEMPRE al blues…

Già, appunto.

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