La Riproduzione dei Fiori è un disco bellissimo. Molto, molto sopra la media italiana. Testi ricchi, melodie avvolgenti. Uno di quei dischi che fanno bene all’anima. Marco è napoletano di nascita ma nella sua musica non c’è niente di partenopeo, forse per il fatto di essere cresciuto nel mezzo del Casentino dall’età di sette anni, nei pressi della Piana di Campaldino che vide Dante combattere fra le file guelfe nella nota battaglia, respirando l’aria dei boschi, del medioevo, della letterautura e dell’ironia che regnano sovrani in quei territori. Incontro Marco Parente nei camerini del Viper prima del nuovo appuntamento di Lezioni di Italiano.
RockShock. Una informazione tecnica. Suoni la chitarra con l’accordatura alla rovescia?
Marco Parente: Non sono il solo, ci sono musicisti tecnicamente anche più ferrati di me sullo strumento. A me serve per accompagnarmi e per scrivere. Capisco che fa venire il mal di mare a vedere le posizioni, però molte cose sono simili se non più semplici. Poi suona sempre in levare. L’ho usato perché ho sempre avuto un approccio istintivo con gli strumenti ed all’inizio, non sapendo fare neanche gli accordi in maniera normale, imparare in un modo o nell’altro era indifferente.
RockShock. Mi sembri una persona più serena rispetto a qualche tempo fa, che si diverte di più con la sua musica. É solo un’impressione?
Marco Parente: In un certo senso è vero. É comunque una cosa che mi fa piacere, se uno nota un cambiamento nel mio equilibrio. Ho avuto fasi alterne, salite e discese nell’umore. Indubbiamente la Riproduzione dei Fiori è un lavoro con il quale sono arrivato ad una maggiore consapevolezza. Fino a Neve Ridens ho avuto un atteggiamento barbaro fino alla fine: non fermarsi mai, non guardare mai indietro. Poi affrontando il quotidiano ho dovuto frequentare la pazienza, l’attesa, il non scalpitare, il non sgomitare, cosa che ho sempre fatto poco. Sono arrivato ad un punto di maggiore equilibrio. L’approccio e l’attitudine nella composizione del disco è stata questa, molto positiva. Una sorta di storia a lieto fine. Anche le canzoni più struggenti e malinconiche, anche se non amo questo termine, come il brano dedicato a Drake (Sempre), hanno un lieto fine con un accordo maggiore, lì, non a caso. Poi ci divertiamo molto, abbiamo deciso di affrontare la musica cercando di farla bene. Sono svanite tutte le prese di posizione, il disco va diritto al sodo e non vuole fronzoli.
RockShock. Domanda obbligatoria: nel disco appare e riappare il diavolo, che però non sembra una rappresentazione del male.
Marco Parente: É un Diavolaccio, col tipico vezzeggiativo toscano, anche se in realtà lo riprendo dal Lorenzaccio di Carmelo Bene. É un vezzeggiativo che ti pone davanti il personaggio con una diversa simpatia. L’ho definito “l’ultimo degli umani”. È la figura, che tra l’altro non esiste , che ci siamo inventati noi, come le fedi e le religioni, e che doveva servire a vestire le nostre miserie. Rappresenta tutto ciò che è male, corrotto e misero, ma mi viene anche da dire tutto ciò che è fragile, di conseguenza ha molto a che veder con l’arte. Il mio diavolaccio all’inizio è massacrato, come nella tradizione russa, dove viene sempre beffato. Insomma è l’ultimo degli umani perché ha vestito questi panni assumendosi tutte le responsabilità e le contraddizioni, la parte più umana dell’essere umano. Però si riscatta, nel mio modo di vedere, acquistando le anime, al mercato della storia, cerca ed acquista le anime che sono le sedi dell’arte. Poi diventa anche una specie di figura di educatore, invitando a vendere l’anima al mondo che altro non è che un invito ad esporsi, a mettersi in discussione.
RockShock. Il gioco è una cosa seria, i bambini lo sanno. Con l’educazione si perde tutto?
Marco Parente: È vero, perché l’adulto vuole insegnare al bambino a giocare. Quando ormai l’adulto è adulterato, e scherza. Ma lo scherzo è adulto mentre il gioco è bambino. Lo diceva anche il grande Gaber, non insegnate ai bambini. Forse solo gli artisti, in particolare i musicisti, hanno la capacità di abbandonarsi per recuperare quei sentimenti e quelle capacità che solo un bambino ha. Magari a tanti altri ciò è precluso, per colpa della società o dell’educazione ricevuta. L’educazione dovrebbe essere il buon senso e non il divieto. Anzi se abbiamo capito una cosa nella storia e che se tu dici ad un essere umano consapevole di non fare qualcosa, sarà la prima cosa che farà. Mi fanno ridere tutti coloro che celebrano il giorno della memoria, noi dovremmo dimenticare, far venire fuori il buon senso che magari non può essere insegnato ma manifestato. Se i “buon sensi” si incontrano si riconoscono. Ma il buon senso non si insegna.
RockShock. Dall’uomo alla donna, dalla donna all’amore. L’uomo può arrivare all’Amore solo attraverso la donna? Un contatto diretto uomo-amore è precluso?
Marco Parente: Be’, è una staffetta. È una staffetta che crea una terza cosa. L’amore però è nella natura della donna, in tutti i sensi, anche in quelli non positivi. L’amore, cosa che non si può definire, sicuramente la donna per natura se lo porta dentro. L’uomo per seme, ma spesso siamo dei selvaggi, non comprendiamo il concepimento, ma questa è la natura. Per cui è una frase molto ambigua, ma credo sia una delle cose più vere che abbia mai detto.
RockShock. La canzone La riproduzione dei Fiori sembra un manifesto anti-Baudelaire. I tuoi sono i Fiori del Bene.
Marco Parente: Non è un manifesto anti Baudelaire. Ciò di cui mi lamento io è che quando il dolore diventa società e costume, non è più vero. Quello di Baudelaire era vero, Baudelaire era ciò che scriveva. Non era un atteggiamento. Viveva sulla sua carne ed ha dato voce ad una cosa che io trovo infinita. Però come succede sempre a chi getta un seme, come tutti i movimenti, beat generation compresa, coloro che l’hanno generata non possono essere limitati all’etichetta, perché sono la cosa che hanno generato. Ginsberg non è beat, è Ginsberg. Loro hanno dato il LA. Poi c’è qualcuno che ha bisogno di identificasi in qualcosa, ha bisogno di riconoscersi, è come la fede, uguale. Poi si crea un movimento che genera società e costume, e quindi moda. Io do grande valore al pathos del dolore, l’ho frequentato eccome il senso del tragico e continuo a frequentarlo, però adesso guardo da un’altra parte. Ferlinghetti dice “vivere bene è la miglior vendetta”. Perché sostenere questo senso di colpa? questo senso del dolore, sul quale c’è chi ci marcia e ci si arricchisce pure? Quelli che lo sono davvero, di solito fanno una brutta fine. I fiori del bene sono l’altra faccia dei fiori del male e decido di frequentare quelli. Di gaurdare lì, ed invece di farmi del male mi faccio il bene.
RockShock. Sempre è una canzone di speranza o di illusione?
Marco Parente: Sempre è come le lettere smarrite, sono ciò che di te rimarrà sempre. Non è né un’illusione né un’aspettativa ma è un dato di fatto. Drake ha avuto un percorso che è finito male, però non è finito male ciò che lui ha dato. Ciò che lui ha dato resterà sempre, ed il resto è un fatto privato. Ci sono delle cose che sono universali. Né speranza, né illusione, dato di fatto.
RockShock. Questa domanda ha bisogno di un minimo di spiegazione. DjJ è un tuo amico che accompagna una coppia di ciechi nei viaggi, con il compito di raccontare loro i luoghi che stanno visitando. Nella tua vita, c’è stata un persona che ti ha fatto vedere il mondo con occhi diversi?
Marco Parente: Tanti autori, da Kafka a Carmelo Bene, ed anche mio padre che quando feci la maturità, per la letteratura, facendo lunghe passeggiate in Casentino, mi ha fatto vedere il Leopardi in tutt’altro modo, mi ci ha fatto appassionare, con delle spiegazioni al limite del deliro, in senso buono, con l’abbandono nel racconto. Quindi direi che il mio Dj J è stato mio padre. Poi In senso lato, tantissimi autori, anche nella musica, hanno acceso delle spie, hanno aperto delle porte nel mio modo di percepire le cose.
RockShock. Shakerai bei, mi sembra una canzone autoironica.
Marco Parente: Ma sì, soprattutto sulla figura del galateo del poeta. Anche se è serio. “Scrivere bene è una forma di educazione” sembra una frase buttata lì, in realtà andrebbe presa seriamente come senso di responsabilità. Poi c’è una grande ironia. Lo definirei dadaista. Mia moglie lo definisce un Jackson Pollock, è un action painting, uno schizzo continuo di colori, di idee e di suoni.
RockShock. Dare e Avere: il verso sto soltanto camminando ha un notevole peso simbolico.
Marco Parente: É un po’ la ragione dei discorsi iniziali: l’aver capito in mezzo al tutto il caos, aver raggiunto la consapevolezza che in fondo stiamo solo camminando, quindi vivendo, mi ha dato maggior equilibrio. Camminare vuol dire vivere, amare, odiare, vuol dire tutto. Non c’è neanche una direzione, c’è un viversi, in essere con il movimento. Senza voler universalizzare un concetto, un etica, o peggio un messaggio. L’ho sempre visto come una sorta di ammissione, di apertura senza vesti. L’unica cosa che mi so dire, che vi so dire, è che sto solo camminando.
RockShock. Non credi che per comprendere pienamente questa canzone si debba avere una certa età, diciamo oltre i quaranta?
Marco Parente: No, secondo me anche un ventenne o un sessantenne, per capire una frase che non è banale ma neanche concettuale non ha bisogno di grandi strutture. Mi sono accorto anche ai concerti, che spesso sono i distratti, i passanti che mi stupiscono sempre. Riescono a lasciarsi andare, riescono a dirmi cose profondissime. Coloro che non vengo preparati percepiscono cose molto più profonde.
RockShock. Ultima domanda: nel disco ci sono molti rimandi, più o meno dichiarati, più o meno volontari, alla musica inglese. Marco Parente, italiano, ha anche una notevole cultura musicale inglese, quale?
Marco Parente: Ho solo una cultura inglese ed americana. Ho sempre preso le distanze da tante cose, anche dal termine cantautorato o da una scena musicale, dove mio malgrado sono stato stipato. Non tanto per un senso critico, ma perché io non sono nato con quelle cose lì. Ad alcune cose ci sono arrivato, ad un De Andrè dell’ultimo periodo, o a delle cose bellissime di Gaber, di Conte o di miei contemporanei. Non i CSI che per me non hanno rappresentato niente, io avevo già le mie idee tutte precise, venivo dai Talking Heads, David Byrne, Laurie Anderson e la sperimentazione. Io sono nato con quelle cose che non ritrovavo in nessun italiano, e quando le ritrovavo era un semplice citazionismo, un prendere un suonino edulcorato all’acqua di rose. Perché non proviamo mai ad imparare a capire qual è il procedimento che ha portato a quel risultato e non solo il risultato. Perché altrimenti sono solo cover. Nei Conservatori, questo andrebbe insegnato. Io non incoraggerei a suonare, anzi. Potrei farlo se hai un attitudine ed un talento, in questo caso va sempre approfondito, anche fino a scoprire che sei un mediocre, non importa, ci devi andare altrimenti è un omicidio. Però incoraggiare tutti a suonare per me non è positivo, perché fa del male e lo vediamo. Sarebbe molto più importante insegnare i processi che portano ad un risultato, non solo il risultato, che ormai c’è, e non l’hai fatto te. Rifacendolo non fai altro che rassicurare un po’ il pubblico. Ad affrontare come dico io la musica, vieni criticato, perché fa paura, la ricerca fa paura a chi detiene i filtri della cultura. Perché la ricerca ti pone sempre di fronte a te stesso e quindi forse scopri che sei anche intelligente, che hai un’opinione, che sai argomentare, che hai una logica. Ciò fa paura, è chiaro.
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