Padania, il nuovo atteso disco degli Afterhours, è uscito da un mese e mezzo arrivando, secondo i dati della FIMI, in cima alla classifica delle vendite, con grande attenzione di pubblico e critica. Un disco “di difficile ascolto” con forti contrasti sonori e racconti di uno stato mentale di chi si scopre alla fine di aver realizzato tutto, tranne se stesso.
Gli Afterhours stanno preparando il nuovo tour, concedendo un’anteprima a Piazza San Giovanni per la festa dei Lavoratori, dove purtroppo la performance è saltata a causa dei ritardi televisivi dell’organizzazione del Primo Maggio, e al recente concerto a L’Aquila con il Teatro degli Orrori, trasmessa in streaming dal sito del Corriere. E’ proprio da questa esibizione che comincio l’intervista con il gentilissimo Giorgio Prette, batterista della band, cortese e disponibile nel rispondere ad alcune domande.
RockShock. In questi giorni siamo tutti scossi dal terribile terremoto che ha colpito l’Emilia. Qualche settimana fa, il 19 maggio, avete presentato Padania suonando a L’Aquila, città natale di uno dei nostri redattori, Ivan Masciovecchio, proprio in ricordo di ciò che accadde tre anni fa. Che idea vi siete fatti girando la capitale abruzzese in quei giorni e che effetto vi ha fatto suonare tra palazzi vuoti e sventrati?
Giorgio Prette. Intanto partiamo dalle sensazioni: molto forti. Non avendo mai visto prima un luogo colpito dal terremoto e avendo come riferimento immagini e filmati che arrivano dai media non si può avere una percezione reale della situazione, perché le immagini sono sì rappresentative, ma non senti in profondità il silenzio che c’è nella Zona Rossa. E’ molto forte come impatto perché c’è tutta questa parte della città, con i suoi monumenti e gli edifici storici, puntellata e lesionata. E c’è la parte più impressionante, quella delle abitazioni costruite negli anni 50-60-70 sventrate a vista, con frammenti di vita e appartamenti che ti danno l’idea dell’immediatezza di un evento del genere che interrompe la vita quotidiana come l’hai vissuta sino a quel momento, così ferma nel tempo. E questo è il caso di L’Aquila, è stato chiaramente un avvenimento toccante.
RS. Infatti, è stato pubblicato un filmato su youtube dove vi siete fatti un giro per la città con addetti ai lavori, toccando proprio con mano la catastrofe e parlando con le persone che ci vivono.
GP. In realtà l’idea di fare qualcosa, al di là del concerto, ci era venuta subito dopo il terremoto quando la tragedia era fresca e sono sorte tutte le iniziative di solidarietà e abbiamo pensato: “teniamoci a mente di vedere se riusciamo a fare qualcosa, ma più avanti nel tempo, quando sarà passato il clamore e le persone di fatto rimangono sole, dopo i primi tempi”. In questo periodo abbiamo notato che si parlava meno di L’Aquila, a parte in occasione dell’anniversario, e anche in funzione del fatto che Manuel, a nome Afterhours, aveva partecipato alla canzone “Domani” per raccogliere i fondi per il Conservatorio e per il Teatro di L’Aquila, e avendo saputo che quei soldi erano ancora “inutilizzati” volevamo anche riportare l’attenzione su questo aspetto. Specialmente dopo aver scoperto che quei soldi sono ancora sospesi perché c’è stato un blocco nel progetto di restauro degli edifici.
RS. Ed è un peccato perché la gente ha bisogno di queste iniziative, soprattutto quando si riesce a dare un contributo di questo genere.
G: P. Quel che possiamo fare noi come musicisti è attraverso il piccolo megafono che abbiamo, cercando di fare comunicazione e di non fare sentire sole le persone. Questo credo sia il risultato che volevamo ottenere e il riscontro che abbiamo avuto è arrivato.
RS. Tra pochi giorni parte il tour, il 7 giugno, da Roma. Rispetto a quello precedente, dove avete messo in piedi un progetto teatrale tra canzoni e letteratura, quest’anno avete preparato qualcosa di particolare per il pubblico? Ci puoi dare qualche anticipazione?
G. P. Quest’anno il tour è un concerto rock tipico degli Afterhours e quello che abbiamo preparato sono i contenuti del nuovo disco che saranno massicciamente presenti nel concerto.
RS. Padania non è affatto un disco politico come qualcuno ha frainteso, ma una denuncia sociale. Nel disco si parla di lotte interiori, dei demoni che ci tormentano, delle dittature che ci imponiamo. Siete emersi con la rabbia di Germi ma non avete assolutamente smesso di cantare la vostra irrequietezza e malessere di fronte a un paese e a una società che pare incapace di lavorare per un bene migliore. E’ lo specchio dei nostri tempi, mi ha molto colpito una frase in Costruire per Distruggere che recita “siamo pubblico che spia un incidente”.
G. P. Esattamente. Mi piace che tu abbia notato questa frase, riassume molto dei concetti che sono contenuti nel disco.
RS. E’ stato anche un nuovo modo di comporre il disco, ogni musicista in separata sede con una maggiore libertà di sperimentare senza alcun condizionamento. Tu come l’hai vissuto questo processo?
G. P. Per una questione puramente logistica, suonando io la batteria, sono quello che è stato più in difficoltà, nel senso che mentre gli altri strumenti te li puoi gestire facilmente a casa tua, con la batteria è un pochino più complicato. Dal punto di vista puramente dell’incisione è stato molto stimolante, perché veniamo da dischi registrati in studio e quindi è cambiato radicalmente il metodo di lavoro non avendo in fase di composizione la pressione, dove sono tutti nella stessa stanza e devi trovare una soluzione di arrangiamento in tempi più ristretti. Qui, avendo più tempo a disposizione, hai la possibilità di provare delle cose che non avresti in sala provando con gli altri. Il risultato è di non accontentarsi della prima soluzione che si trova, che funziona bene, ma si va oltre. Magari si trova qualcosa di meglio, di più efficace e interessante, però il risultato è una maggiore libertà mentale, espressiva e creativa.
RS. La parte centrale di Ci Sarà Una Bella Luce è magnifica, con quel pezzo acustico di Rodrigo. Mi sembra soprattutto che il contributo di Ciccarelli sia stato altissimo in questa sessione, portando tante idee in una parte considerevole dei componimenti. La grande qualità degli Afterhours è data dall’amalgama dei componenti della band che riescono a rinnovare il sound e le composizioni senza risultare affatto scontati, disco dopo disco.
G. P. Certo, questo metodo di lavoro ha evidenziato ancora di più le diverse anime che compongono questa band che sono tutte le grosse risorse per il risultato finale e che in questo disco sono particolarmente risaltate.
RS. In Padania abbiamo canzoni come Fosforo e Blu, l’inizio e la fine di Ci Sarà Una Bella Luce e Io So Chi Sono, in cui le sonorità risultano convulse, esageratamente frenetiche, quasi disordinate… oserei dire disturbanti, un “difficile ascolto”. Sono brani che hanno scosso a sorpresa i fans e i critici che non si aspettavano probabilmente queste improvvisazioni disarmoniche, sebbene siano adeguate all’atmosfera dell’intero album. Da dove derivano? C’è stato qualche artista che vi ha influenzato nel produrre brani di questo genere? Due esempi che mi vengono in mente sono i Mars Volta ma soprattutto Damo Suzuki con cui se non sbaglio Manuel ha collaborato un anno e mezzo fa.
G. P. E’ chiaro che quello che uno di noi ascolta o fa entra poi nel bagaglio personale del musicista, però le cose che facciamo anche extra-Afterhours le facciamo come spazi di libertà che ci ritagliamo per fare cose diverse e che non rientrano nel progetto Afterhours.
RS. Sei membro stabile della band dal 1990, quando ancora cantavate in inglese. Posso domandarti quando e come hai iniziato a fare musica, cos’è che ti ha dato la molla?
G. P. Interiormente mi ha spinto la necessità di creare qualcosa di mio che fosse anche solo una forma di sfogo o comunque di avere qualcosa di mio in quel periodo della vita. Questo, unito all’amore per la musica, mi ha portato a trovare in qualche modo vari pezzi di batteria e a montarmene una nella cantina dell’appartamento dei miei genitori. Non sapevo fare niente, ho imparato da solo ascoltando con un radiolone in cuffia, cercando di seguire le canzoni che mi piacevano in quel periodo, anche se non ero capace. Mi bastava ogni giorno imparare una piccola cosa, ricevendo una piccola gratificazione e divertimento. Da lì tutto il resto è semplicemente iniziare a conoscere le persone, sonicchiare con qualcuno e la storia è poi fatta di incontri.
RS. Mescal, Emi, Universal e ora avete fondato una vostra etichetta indipendente, “Germi”. Pensate che per un artista oggi sia possibile promuoversi in maniera autonoma, chiaramente disponendo di tempo, capacità relazionali e budget sufficienti a delegare a qualcuno il compito di farlo al posto delle case discografiche?
G. P. Sì, è più realizzabile con un progetto come il nostro consolidato negli anni che ha un pubblico, anni di esperienza e ha anche attorno uno staff di persone con cui collaborare. E’ chiaro che per una band che non ha esperienza e non ha una struttura consolidata negli anni è più difficile, quindi possono essere ancora utili nonostante tutto le strutture di una casa discografica strutturata.
RS. E tu credi che con internet una giovane band possa promuoversi in maniera adeguata o soltanto può ritagliarsi un piccolo spicchio per poter promuovere la propria musica?
G. P. Ma guarda, è una possibilità. Però i numeri, se effettivamente si pensa a quanti artisti a livello mondiale sono venuti fuori in quel modo, è una percentuale molto bassa rispetto alla massa.
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