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Intervista a Manuel Volpe

Manuel Volpe è l'autore di un album senza tempo e senza età, in cui jazz e canzone d'autore italiana vanno a braccetto col folk d'oltreoceano e un certo gusto jazz. Di Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light e di altro ancora abbiamo discusso proprio col suo autore

Manuel Volpe

Manuel Volpe è l’autore di un album senza tempo e senza età, in cui jazz e canzone d’autore italiana vanno a braccetto col folk d’oltreoceano e un certo gusto jazz.

Di Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light e di altro ancora abbiamo discusso proprio col suo autore.

RockShock. Dalla Sicilia ad Ancona, dal banco mixer agli strumenti musicali e alla voce. Vogliamo provare a riassumere in poche parole il percorso che ti ha portato fino a Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light?

Manuel Volpe. Ho iniziato a suonare che avevo 10 anni, prima al pianoforte poi son passato quasi subito al basso elettrico e a studiare sul serio la musica, partendo dalla teoria e dal solfeggio. Il jazz mi ha appassionato abbastanza precocemente; mi riferisco al jazz contaminato e filtrato attraverso la sensibilità di casa nostra, a Paolo Conte in particolare, che ho assorbito mano a mano grazie ai dischi di mio padre.
A 17 anni ho avuto una parentesi punk-noise, ascoltavo tantissima musica della Chicago anni ’90: turbolenze adolescenziali.
E poi… un corso di tecnico del suono, e poi il lavoro come assistente in uno studio di registrazione di Senigallia – che è la Red House Recordings – dove ho maturato esperienze molto belle umanamente e importanti professionalmente.
Dal trasferimento a Torino in poi ho cominciato a lavorare più seriamente su un mio progetto personale che è appunto questo disco che è appena uscito.

RS. C’è stato un momento in cui ti sei cominciato a vedere come un artista?

MV. Diciamo che l’idea c’era già da subito, quando ero ragazzino, però poi di fatto il lavoro in studio mi aveva un po’ allontanato dalla musica suonata, nel senso che ero molto concentrato sulla vita da studio, dimenticandomi poi che fondamentalmente anch’io volevo essere un musicista. Poi, appunto, quando mi sono trasferito a Torino ho ricominciato a suonare e a scrivere delle cose da solo, non più con una band, prendendomene tutte le responsabilità.

RS. C’è un album uscito da poco, che abbiamo recensito, Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light: che cosa vuole dire il titolo, perché il titolo è così lungo?

MV. Significa “le tenebre che giacciono, che stanno al mio fianco nel momento in cui giro lo sguardo, la faccia verso la luce”. Il titolo è lungo perché volevo dare una chiave di lettura dell’intero lavoro. Una parola singola o comunque qualcosa che potesse funzionare da metafora, mi sembrava potesse essere un po’ ambigua. Ho quindi preferito una frase più descrittiva, pur mantenendo un velo di ambiguità; è un disco molto vario a livello anche di ambientazioni, ma avevo un po’ la paranoia che risultasse un po’ pessimista un po’ dimesso, invece si riferisce a un momento di cambiamento dal buio alla luce, un cambiamento accompagnato dalla speranza.

RS. Facciamo finta che io non abbia mai ascoltato questo disco, lo metto nel mio lettore e …  che succede, che si sente?  

MV. Si sente penso un… chiamiamolo un folk dove però l’aspetto musicale, almeno per me, è molto più importante di quello testuale; non credo che sia un disco di cantautorato, non era quello che volevo fare: non è che il testo prevalga sulla musica. Io parto sempre dalla  musica, la melodia, l’arrangiamento e poi dopo scrivo la parte vocale, che mi serve per assecondare e accompagnare la parte musicale. La mia voce accompagna più che altro la trama, il racconto che già la musica esprime in sé, per lo meno quanto ad ambientazioni sonore.

RS. Ambientazioni che sono davvero poco italiane, no? A che cosa fanno riferimento, a quali musicisti grosso modo ti senti affine come stile e/o a quale periodo storico musicale è ispirata la tua musica?

MV. Durante le registrazioni ho ascoltato molto Una Faccia In Prestito di Paolo Conte. E’ stato un po’ il punto di riferimento per capire l’equilibrio tra i vari momenti, in un disco molto vario e allo stesso tempo sempre molto equilibrato tra parti strumentali e parti cantate; le parti strumentali sono molto importanti per definire il tema del testo, quindi è stato un po’ un punto di riferimento continuo. A livello poi più personale, l’ascolto di Tom Waits quando avevo 18 anni è stato abbastanza determinante, soprattutto il Tom Waits di Blood Money e Rain Dogs, che è quello un po’ meno blues ma molto più contaminato.

RS. I testi di cosa parlano?

MV. I testi in realtà vogliono un po’ descrivere alcuni quadri, ambientazioni, scene in cui c’è un dialogo poi che è sempre rivolto ad una persona ma parlano sempre in prima persona singolare, quindi c’è un io che in realtà sta raccontando ad un altro alcuni aspetti della propria vita, alcuni momenti di difficoltà. Non c’è la pretesa di dover trasmettere per forza un contenuto, nel senso che sono delle riflessioni che io ho fatto su di me, su alcune cose che vedo, che però allo stesso tempo mi piace lasciare sempre un po’ velate, ambigue; riprendendo il discorso di prima, i miei contenuti miro a trasmetterli con la musica più che col testo.

RS. La musica in qualche modo è anche un po’ matematica, no? Allora parliamo di minimo comune denominatore. C’è un minimo comune denominatore in quest’album che sta alla base dell’ispirazione, che sta a monte alla sua composizione?

MV. C’è ed è stato cercato esplicitamente: si tratta di un’atmosfera abbastanza cupa, fondamentalmente un po’ malinconica, dove il tema  del buio si riflettesse. Però poi l’uso di strumenti come il clarinetto, il violino, strumenti che bene o male hanno un proprio spazio, un proprio corpo, che occupano un certo spazio all’interno delle strutture della musica e delle strutture armoniche, dà quel senso un po’ di leggerezza, di bellezza.

RS. Per noi “comuni mortali” l’atto creativo è sempre qualcosa di un po’ misterioso e ci rimane complicato capire come fa un artista ad accorgersi, tra le tante, quando un’idea è una buona idea.

MV. Io non lo so, nel senso che per me la cosa più facile è registrare. Ho la possibilità di registrare in un piccolo studio casalingo, magari parto da un giro base che magari suono sul divano mentre aspetto di uscire con gli amici. Molto spesso tantissime cose poi le perdo, perché magari mi dico è bella questa cosa che ho fatto, poi appunto è ora che devo uscire, devo andare a lezione, all’università, poso la chitarra e al ritorno mi sono dimenticato tutto. Il fatto di cogliere qual è l’idea bella, quella valida… non saprei. Succede a volte che probabilmente il parametro è l’impegno che ci metto, magari a trasformare un’idea semplice in qualcosa di diverso aggiungendo uno strumento, o cambiando un arrangiamento. Ma non so se sia la maniera giusta, è semplicemente il mio modo di agire.

RS: Se io avessi avuto il tuo disco senza cartella stampa, lo avrei immaginato come quello di un contadino o un boscaiolo dell’immensa campagna del Mid-West americano.

MV. Sono nato a Jesi in provincia di Ancona, che comunque è provincia, periferia, campagna e colline marchigiane. Ora vivo a Torino, ma sicuramente il fatto che arrivo da un paesotto di campagna si sente. In realtà però c’è mio padre che si fa grasse risate (e si pone qualche domanda) quando escono recensioni che sottolineano l’aspetto decadente della mia musica, quello che rimanda in qualche modo a Waits e a Capossela, personaggi che hanno avuto delle esperienze di vita di un certo tipo. Mio padre a quel punto mi chiede cosa combino tutto il giorno a Torino, mentre invece la mia vita in realtà è piuttosto semplice, studio, vado all’università, suono, scrivo, esco con gli amici, bevo pochissimo alcol, insomma tutto il contrario di un “artista maledetto”.

RS. Trovo il tuo disco come lontanissimo dalle mode, fuori dal tempo: ascoltato oggi, 5 anni fa o fra 5 anni rimane lo stesso insomma.

MV. Era proprio mia intenzione rendere il disco non databile; probailmente questo mio desiderio è arrivato proprio dai miei tantissimi ascolti di musica anni ’90, che ascoltati oggi hanno un suono riconoscibilissimo e derivato da un preciso modo di registrato tipico di quel periodo. Ascoltati oggi… risultano immediatamente riconducibili a quel contesto e a quel periodo storico, cosa che io volevo evitare col mio disco.

Il sito di Manuel Volpe

 

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