Ezio Guaitamacchi è tra i più importanti giornalisti musicali italiani che, oltre ad un’intensa attività editoriale come giornalista, direttore e fondatore di riviste e collane musicali, ha lavorato per la TV con Renzo Arbore nel programma “Quelli della Notte” ed altri contenitori musicali, tra cui un programma con Massimo Ghini dal titolo “Delitti Rock”. Autore di libri sulla storia del rock, eventi musicali e profili di artisti, ha appena raccolto 50 storie di artisti scomparsi pubblicate su Amore Morte e Rock’n’Roll.
Ciao Ezio, hai dato una mano a far conoscere la cultura musicale al pubblico televisivo e hai scritto anche diversi libri. Oggi ne pubblichi uno che racconta di 50 dipartite nel mondo del rock, un tema su cui avevi già lavorato per dieci puntate su Rai2. Quando è iniziata l’idea di scrivere un libro a riguardo?
Hai citato un programma condotto da Massimo Ghini una decina di anni fa, tratto da un mio libro chiamato “Delitti Rock”, concepito in maniera diversa da quanto pubblicato fino ad allora. Quel libro ha un taglio enciclopedico suddiviso in ordine cronologico, dove sono andato ad investigare e a ripercorrere le celebri morti, a volte tragiche, a volte violente, a volte misteriose, di varie stelle del mondo della musica. Sono voluto tornare “sulla scena del crimine”, ma in maniera diversa.
Intanto perché l’attualità purtroppo ci fornisce notizie che ci lasciano costernati, come la morte di Maradona preceduta da altre morti eccellenti nel mondo della musica, ad esempio quella di Eddie Van Halen. Negli ultimi anni sempre più spesso accade che, vuoi per l’età dei personaggi, vuoi per le vite scellerate che chiedono il conto, perdiamo tanti grandi artisti. “Amore Morte e Rock’n’Roll” è stato concepito in maniera più narrativa, ho puntato tantissimo sulle storie come faccio da 15 anni a questa parte sia di fronte alla telecamera, dietro a un microfono, su un palcoscenico, scrivendo articoli, saggi o libri.
Ho visto che è la maniera più efficace dal punto di vista della divulgazione, perché alla fine il mio obiettivo è quello di fare conoscere le storie e le opere di questi personaggi, cercando di trovare un equilibrio tra la popolarità dell’artista e l’interesse della storia.
Realizzare un libro di questa portata significa metterci dentro tanti anni di lavoro nella musica con interviste, frequentazioni, rivelazioni, confessioni, racconti e aneddoti raccolti di prima mano.
Durante una conversazione con Laurie Anderson, moglie e compagna di Lou Reed negli ultimi 20 anni di vita, nonché artista fantastica e creativa, lei mi disse: “Sai, alla fine la morte non è che la dimostrazione del grande amore che noi provavamo per la persona scomparsa”.
Il dolore che proviamo è direttamente proporzionale a quanto volevamo bene a quella persona in vita. Ci rendiamo davvero conto del valore delle persone quando non le abbiamo più. Ho trovato un fil rouge tra tutte queste storie, mi sono reso conto che dietro le vite di questi personaggi, ma soprattutto nei momenti finali delle loro esistenze, c’era questa grande presenza di storie d’amore, di grandi sentimenti. Paradossalmente c’era l’assenza dei medesimi creando quei vuoti e la solitudine, complice di questi delitti. Pensa ad Amy Winehouse, Janis Joplin, George Michael, Dolores O’Riordan… tutti artisti che muoiono soli, anche per un vuoto interiore. In certe morti c’è la presenza fisica di un altro importante personaggio, pensa a Syd e Nancy o John Lennon e Yoko Ono, con lei che tiene tra le braccia il marito morente. Oppure Kurt Cobain e Courtney Love, una grande storia d’amore sebbene molto controversa.
Le persone che li conoscevano bene mi hanno rivelato che Kurt era davvero innamorato di questa donna, e puoi dire tutto il male che vuoi ma un conto è dire che una è una poco di buono, un altro che è un’assassina. Per non parlare di grandi storie d’amore come appunto Lou e Laurie, una morte poetica: un newyorkese che cantava “Heroin” e di un lato selvaggio della vita, portando alla ribalta i reietti della società tra le strade di New York, che decide di vivere gli ultimi anni della sua vita in questa zona bellissima a Long Island, tra le onde del mare, e vuole uscire all’aria aperta, in mezzo alla natura, facendo questa forma dell’acqua del Tai Chi.
Tutto questo mi ha portato a raccontare storie in cui non c’è solo l’aspetto misterioso e drammatico e violento, o le coincidenze pazzesche dove la sfiga raggiunge vertici inarrivabili, ma anche i destini incrociati di personaggi che in vita non si sono conosciuti, ma che la morte unisce per una serie di circostanze o di modalità. Credo che sia una prospettiva diversa di raccontare storie che mi auguro siano appassionanti e interessanti e che diano a tutti i lettori curiosi l’opportunità di ascoltare dei brani, che ho inserito in ogni storia per far riscoprire i grandi personaggi e le loro grandi opere.
Una delle storie che ho letto subito, appena preso il libro, è quella di Chris Cornell, il singer dei Soundgarden, e a distanza di poco tempo dalla sua morte è mancato anche Chester Bennington. Mi ha impressionato questo incrocio tra le due vite.
I miei amici mi chiamano “lo Sherlock Holmes del Rock n’ Roll”, e l’unica cosa che ci differenzia è che ho suonato per tanti anni il violino meglio di lui, ma non mi drogo, non ho il cappotto con la mantellina, il bizzarro cappello e il maggiordomo al seguito, ma soprattutto io non risolvo casi. Il mio scopo non è dare la soluzione del mistero, ma ti racconto fatti che fanno sorgere dei dubbi. È il lettore che decide se approfondire.
Questa è l’idea che c’è dietro al libro, storie con una media di diecimila battute che in un quarto d’ora te le leggi come una short story. Ho messo quindi dei box alla fine della storia per approfondire la vicenda e come nel caso della storia di Chris Cornell c’è questa ipotesi di “complotto” da parte di David Geffen, proprietario della casa discografica, che è appunto un rumor. Ci sono sempre voci sospette su questa vicenda, dove Chris e la moglie avevano una fondazione a difesa dei bimbi abusati, lo stesso Cornell era sotto contratto proprio con la Geffen e Bennington e lui erano amici e sono morti con alcune coincidenze in comune. Ma è come parlar male di Courtney Love, un conto è deprecare un personaggio dal punto di vista umano per la sua condotta, un conto è dire che uccide il marito.
Come Geffen, che ha delle devianze sessuali ma non è detto che sia a capo di una setta di pedofili. Io con questi box aggiuntivi esco dalla storia, perché questi elementi narrativi avrebbero rovinato il climax, ma giornalisticamente parlando mi sentivo di non trascurare altri aspetti, perché rendono attuali storie vecchie di 50 anni dove nel frattempo si sono scoperti fatti nuovi e reinterpretazioni.
Mi piace molto l’impaginato di questo libro, dove non c’è solo una serie di storie da raccontare in sequenza, ma un insieme di schede diverse che offrono dettagli alla lettura.
Ho alle spalle più di trent’anni di riviste musicali e dirigo collane di musica, anche per Hoepli che ha pubblicato il mio libro, una delle più antiche case editrici italiane, specializzata in manuali tecnici e dizionari. Mi hanno offerto di dirigere una collana e quasi tutti i libri della collana che dirigo hanno questo tipo di impostazione e di formato.
Trent’anni fa uscivano i libri con la traduzione delle canzoni e avevano successo perché non si trovava nulla, oggi il lettore appassionato di rock è cambiato e deve esserci un modo diverso di comunicare, di proporre le cose su un prodotto fisico come un libro. Mi fa piacere che tu abbia apprezzato questo perché è uno dei punti principali su cui mi sono battuto e tu sei che sei andato a leggere di Chris Cornell appena hai preso in mano il libro, ne sei un esempio: non c’è bisogno di iniziare a pagina 1 e arrivare fino in fondo, che a volte è molto impegnativo.
I libri che realizziamo, e questo in particolare, sei tu che decidi cosa leggere, e se un artista ti interessa vai subito a vedere la sua storia. E se ti piace quella storia, è molto probabile che vada a leggere altri artisti, magari quelli che non hai mai sentito nominare o non hai mai approfondito, al punto di vedere i filmati e ascoltare la loro musica proposta a corollario.
Tra le tante storie a cui hai lavorato per la realizzazione di questo libro, qual è l’indagine che più ti ha affascinato?
La puntata del programma televisivo di “Delitti Rock” che ha fatto più ascolto è il caso irrisolto di Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones, colui che diede il nome alla band e che oggi è stato un po’ dimenticato. Brian divideva la popolarità con Mick Jagger, era il lato B del singer, tanto era sexy e animale da palcoscenico Jagger, tanto era dolce e delicato Jones, molto composto sul palco.
Brian Jones era amico di Jimi Hendrix, dei Beatles, di Andy Warhol, aveva interesse per le musiche etniche, era un personaggio artisticamente molto evoluto che spaziava dalla classica al blues e al jazz.
Era un artista dal carattere molto complicato dovuto anche ad un’infanzia difficile e all’essere una vittima in balia delle droghe, che fu sostanzialmente buttato fuori dal gruppo un mese prima della sua morte. Da quello che mi è stato raccontato c’è stato un incontro in cui alcuni rappresentanti dei Rolling Stones si sono recati in questa sua casa di campagna appartenuta a Alan Alexander Milne, lo scrittore che ha creato il personaggio di Winnie The Pooh. Ed è qui che i rappresentanti di Jagger e Richards offrono a Brian Jones una buonuscita e un vitalizio. Secondo la legge inglese se tu hai creato un logo o un marchio anche non registrato ed è di dominio pubblico, tu sei il proprietario. E tutti sapevano che fu Brian Jones a inventare il nome Rolling Stones quando furono presi alla sprovvista alla loro prima esibizione al Marquee di Londra. Quando il proprietario del locale chiese che nome avesse la band, Brian vide un disco di Muddy Waters con la canzone Rolling Stones e decise che quello doveva essere il nome del gruppo. C’era quindi una band che lui aveva creato che lo stava buttando fuori e Jones avrebbe mantenuto tutto.
Questo accordo non fu mai fatto e tre settimane dopo Brian fu trovato morto sul fondo della piscina della sua casa. Io sono stato a vedere questa casa immersa nello stesso luogo in cui Milne ha scritto i suoi racconti del bosco di Cento Acri, e ho visto la piscina dove Brian è affogato, certamente non olimpionica né profonda come l’oceano e Brian Jones da ragazzo faceva gare di nuoto. Se mi fai vedere un’autopsia e dei documenti, io prendo atto ma non so decifrare queste prove, e nonostante pressioni di ogni tipo, quel caso non fu mai aperto, né fu mai fatta una vera indagine. Sono riuscito a far venire in Italia la fidanzatina svedese di Brian Jones, Anna Wohlin, presente la sera della morte e che ho intervistato. Anna ha scritto pure un libro dopo 50 anni e ha raccontato una storia che è la sua, ma che non sappiamo quanto sia la verità. La Wohlin mi ha raccontato che Brian parlava spesso con John Lennon ed era amico di Jimi Hendrix, tanto da presentare lui stesso il leggendario chitarrista al Monterey Pop Festival nel suo grande ritorno negli USA dopo essere diventato famoso a Londra.
Lei mi raccontava che John Lennon nell’estate del 1969 non era già più insieme ai Beatles, sebbene poi registrò Abbey Road per uscire di scena, e diceva fosse meglio stare fuori dagli Stones e aveva anche abbozzato all’idea di fare una band assieme a Hendrix. Rimane un grande alone di mistero dove c’è chi è convinto che dietro a quella morte ci fossero degli interessi di qualcuno legato al management degli Stones, se non addirittura loro stessi. Certo è anche brutto sapere che Keith e Mick nemmeno parteciparono al funerale e tre giorni dopo fecero un concerto a Central Park per annunciare Mick Taylor come nuovo chitarrista della band, leggendo una poesia di Percy Bysshe Shelley con le farfalle bianche che volano in cielo. Nella sua celebre autobiografia “Life”, Keith Richards dedica poche righe alla figura di Brian Jones.
Ad un certo punto Brian sicuramente non fu amato dagli altri componenti salvo Bill Wyman, con cui ho parlato tante volte e nella sua autobiografia parla tantissimo di Brian, del giorno della morte e del funerale dove era invece presente perché era l’unico vero amico con cui condividevano le stanze dell’albergo. Un caso che mi ha affascinato per tanti motivi, perché è un noir ma anche il racconto di un personaggio complicato. Alcuni di questi artisti, morti anche in età precoce, ci hanno privato di grandi musiche, e sicuramente quella capacità di fare musica anche a 80 anni, pensa a Leonard Cohen, cantando della loro età.
E invece la morte che più ti ha fatto star male?
Amy Winehouse, tra le più recenti. È ancora inspiegabile e mi fa incazzare perché negli anni 70 la droga era vista come veicolo di sperimentazione, di esplorazione, non come un pericolo. Quando sei giovane il pensiero della morte è lontanissimo, semmai la sfiori attraverso la perdita di qualche genitore, ma non ti viene in mente che tu possa esserne vittima. Non c’era la percezione che potesse essere letale. Nel 2011 non è ammissibile che una ragazza di 27 anni faccia quella fine lì, triste e malinconica, senza quelli che avrebbero dovuto volerle bene, e non mi riferisco al manager.
Amy aveva tecnicamente ampi margini di miglioramento, era come un diamante grezzo, avrebbe potuto anche frequentare territori musicali che amava, dal jazz al blues, cantandolo a modo suo ma con ancora più consapevolezza, tecnica, personalità. Lei aveva un’espressività alla Billie Holiday, ma con una consapevolezza artistica ancora da affinare. Era una che il successo l’aveva raggiunto, i soldi li aveva fatti, e magari non si faceva inghiottire dai meccanismi del music business.
Guarda Robert Plant, ha rinunciato al più grande business che il mondo del rock potesse offrire per la reunion dei Led Zeppelin. Plant ha saputo dire di no, non è che sono tutti vittime del loro stesso successo.
Lo stesso Springsteen, se pensi a Broadway o ai dischi fatti in acustico, ha percorso altre strade diverse dal fantastico performer che corre e suda cinque ore di fila. Anche lui ha saputo dare delle altre emozioni, un lato diverso, ed è un segno non solo di maturità artistica, ma anche personale, che ti può salvare la vita.
Artisti che a volte non ce la fanno ad affrontare i loro demoni interiori.
È interessante quello che ha scritto nella mia prefazione Enrico Ruggeri sulla fragilità dell’artista, sul trovare un equilibrio tra il successo pubblico e le difficoltà del privato. C’è chi rimane prigioniero e la fragilità o il terrore di perdersi provoca sconquassi interiori, e alcuni cercano di quietare queste ansie e inquietudini con sostanze stupefacenti. Pamela Des Barres, che ha firmato anche lei la seconda prefazione, ha conosciuto alcuni musicisti intimamente e sostiene che l’artista alla fine riesce a trasformare il suo egoismo in un atto di altruismo, perché tutto il suo lavoro è diventato qualcosa che il mondo ha potuto fruirne e godere e sognare. Ed è così che vanno viste queste storie, al di là dei giudizi che possiamo dare. Un conto è un personaggio discutibile che diventa un cattivo maestro, ma i grandi artisti vanno valutati per la loro opera.
Come dico nella mia introduzione, le persone muoiono tre volte perché il loro cuore cessa di battere, il loro corpo viene sepolto e dopo un po’ ci si dimentica della loro voce. Almeno questi artisti muoiono solo due volte, le loro voci e opere sopravviveranno e non verranno mai dimenticate, saranno immortali.
Il mondo della musica nel 2020 ha risentito fortemente del Covid.
Direi tutto il mondo della cultura, la cosa più grave è che ci siamo quasi dimenticati, non ne parla più nessuno. Essendo la cultura attività non essenziale, secondo le definizioni che ci sono date, è come se non esistesse più. Ho ascoltato recentemente un estratto di un programma radio satellitare americano con Bruce Springsteen durante i giorni delle elezioni del Presidente USA, e diceva “Avete visto la Sala Ovale delle Casa Bianca? Non c’è un quadro, non c’è un libro, non c’è musica, non c’è una fotografia della famiglia del presidente. Almeno i Reagan si facevano fotografare a cavallo con il capello da cowboy, o Obama i selfie sulla spiaggia. Qua non c’è un cagnolino.
In che mondo stiamo vivendo? Un mondo arido, senza poesia”. Pensando a quelli che dicono “di poesia e di musica non si campa” la risposta è solo una: senza poesia e senza musica si muore.
Il bello di un concerto è andare insieme a vederlo, stringersi e abbracciarsi, ma con il lockdown si è tentata la strada dello streaming.
La gente si è abituata negli ultimi 10-15 anni ad usufruire di internet, ma non funzionano le economie, e non parlo di artisti emergenti o dilettanti. Anche le grandi star non riescono a produrci grossi ricavi, e questo mette interiormente in crisi il sistema musicale.
Lo streaming live è l’unico modo in questo momento che ci consente di far vedere che siamo vivi, ben vengano queste iniziative. Bisogna cercare di sfruttare quel mezzo ed adattarsi a quegli schemi, sperando in tempi migliori.
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