Idles
Tangk
(Partisan records)
post punk, alternative rock, noise rock
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Contaminazione, termine troppo spesso abusato ma comunque perfetto per descrivere il nuovo album degli Idles intitolato Tangk. Coprodotto da nientepopodimeno che Nigel Godrich con Kenny Beats e Mark Bowen questo nuovo lavoro della band odora di capolavoro.
Idea01 introduce con una delicatezza e introspezione inusuale per la band questo lavoro, fra un pianoforte minimale e beat raffinati, Talbot sussurra timidamente e rapisce in un crescere di emozioni.
Con Gift Horse le sonorità sembrano invece quelle tipiche degli Idles, seppure con meno furore; il brano scorre via che è un piacere e, come d’altronde l’intero lavoro, si sente l’esigenze di ripartire in loop da capo.
Le ritmiche sghembe dei Radiohead più elettronici si sentono in Pop Pop Pop, brano comunque pieno anche di beats a tinte black.
Arriva poi Roy, ballad travolgente e straniante che è il perfetto incipit per la traccia seguente, un’altra perla sprigionante emozione; A Gospel ci trascina nell’introspezione di un abbandono straziante con sonorità davvero coinvolgenti.
Dancer, primo estratto da questo lavoro che vede la partecipazione degli LCD Soundsystem, rialza il livello di ritmo ed è da subito diventato uno degli anthem della band seppure con sonorità macchiate di indietronica che hanno già dal primo ascolto lasciato smarriti i fans della band per poi coinvolgerli e farlo già diventare uno dei brani più amati.
Nemmeno il tempo di finire le danze che parte quella che credo sia la traccia più bella dell’album. Grace mi fa venire la pelle d’oca ogni volta nonostante decine e decine di ascolti, già dal primo attacco “Give me grace, give me light”. Pezzo assolutamente magico sia per testo che per atmosfere e sonorità.
Quasi targato Hives il riff iniziale di Hall & Oates, brano garage che non stona nel contesto ma che credo sia il livello più basso (ma comunque più che dignitoso) di questo Tangk.
Molto più intrigante Jungle, cavalcata piena di cambi di marcia, seguita da un brano sulla gratitudine, un alternarsi di emozioni, un’altalena fra tiro e quiete che credo farà furore nel momento in cui il pubblico si scatenerà cantando a squarciagola “That gratitude cuts through my veins I hold my hand up and i say”.
Chiude quella che si candida assieme a Grace a punta di diamante dell’album. Monolith ad ogni ascolto mi fa cambiare idea, a volte mi avvolge in un caldo abbraccio, altre mi raggela; un brano che punge fortemente sullo stato emozionale delle persone con una chiusura inaspettata col sax.
Un album che ho amato dal primo ascolto e credo che difficilmente potrà uscire in questo 2024 un album altrettanto bello da spodestarlo dal posto che gli compete, cioè di album dell’anno. Se accadrà, ben venga.
Imperdibile.
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