Depeche Mode + Franz Ferdinand
Roma, Stadio Olimpico, 17 luglio 2006
live report
_______________
Un’organizzazione sciatta da far accapponare la pelle. Una gestione delle fasi di prevendita dei biglietti che ha lasciato a dir poco interdetti, per non parlare dei balzelli aggiunti/imposti dall’ormai monopolista Ticketone. Il palco tutto sommato piccolo per uno spazio enorme come quello dello Stadio Olimpico e un impianto audio assolutamente inadeguato. Ma anche e soprattutto un grandissimo show, capace di fugare ogni dubbio sullo stato di grazia dei Depeche Mode.
Ma andiamo per ordine.
I post-grunge Scarling li ha ascoltati solo chi s’è accampato allo stadio dal pomeriggio, per tutti gli altri invece c’è stato un combattimento all’ultimo parcheggio, salvo poi rimanere intrappolati nelle resse davanti ai cancelli e ai tornelli d’ingresso.
Meglio è andata ai Franz Ferdinand, che hanno suonato davanti ad almeno due terzi dei circa 50.000 intervenuti alla serata. Alex Kapranos e soci, per nulla intimiditi di suonare per un pubblico non loro, hanno infiammato la platea con la loro sapiente miscela di indie rock edonista e figlio della new wave.
In cinque anni d’attività e due album, di cui il primo omonimo uscito nel 2004, sono diventati una delle band più divertenti, da ascoltare soprattutto dal vivo, dove le levigature dei dischi vengono meno a vantaggio di una più robusta visione delle loro canzoni per “ballare con le chitarre”. Non più una semplice promessa, quindi, ma una solidissima realtà. Davvero bravi.
I Depeche Mode sono in tour da quasi un anno e la seconda parte del loro giro mondiale, quella che è arrivata a Roma, differisce poco da quella invernale se non per un alleggerimento della scaletta, a vantaggio dei pezzi storici della band (è sparita la peraltro mediocre Macro); invariata anche la scenografia dello spettacolo, davvero notevole.
Sul palco c’è una enorme testa di robot, con al posto della bocca un display che snocciola scritte attinenti ai testi delle canzoni in esecuzione.
Le tre tastiere (di cui una, quella di Martin Gore, usata in pochissime occasioni) sono una specie di banco di comando di un’astronave, mentre il drum kit ha un allestimento “normale”.
Gore continua ad imbracciare la sua chitarra vestito da cigno nero, seppure comprensibilmente con meno piumaggio, per non schiumare sotto i colpi della calura estiva.
Ma soprattuto ci sono otto schermi, di cui sei come quinta e due ai lati del palco. Non servono a rimbalzare le immagini dei “nostri” ai cornuti e mazziati che hanno pagato 51 euro per la tribuna Monte Mario e per trovarsi lontanissimi, nella condizione di immaginare solamente lo spettacolo, ma per produrre una specie di impazzito videoclip in diretta.
Disposti con studiato disordine, formano una specie di gruppo di fotografie istantanee, pronte a mostrarci attimi, a catturare frammenti di realtà in diretta dal palco. O a bersagliarci di scritte, messaggi subliminali, forme e figure, tutte rigorosamente monocromatiche, producendo delle vere e proprie suggestioni visive più che “mostrare”.
Dopo l’intro, tratta da Introspectre, parte la distorsione elettronica di A Pain That I’m Used To, canzone che va sempre e comunque ascoltata a volume altissimo e che nella versione live è ancora più stordente.
A Question of Time è una frustata che scuote le schiene anche dei pochi rimasti attoniti dall’inizio del concerto, che prosegue con un altro paio d’estratti dal recente Playing the Angel, per poi affondare a piene mani dal passato della band.
La doppietta Walk in my Shoes / Stripped manda in delirio tutti, anche perché Stripped e In Your Room si riveleranno probabilmente come i momenti più intensi dello spettacolo.
E anche perché Dave Gahan da questo punto in poi è rimasto a torso nudo, coperto solo dai suoi tatuaggi, per la gioia delle ragazze.
Le velleità canore di Martin Gore trovano sfogo nella terna Home, It Doesn’t Matter 2 e Shake the Disease, ma la sua pur intensa interpretazione scompare davanti al carisma e alle emozioni trasmesse da Dave Gahan, da parte sua colpevole di continuare a lanciare un po’ troppi urletti, e allo stesso tempo padrone assoluto di una folla pronta a reaggire immediatamente a qualsiasi suo stimolo/ordine.
Il concerto scorre via come un bicchier d’acqua, con una scaletta perfetta, ottimi arrangiamenti e un visual davvero efficace, in pratica un’ipoteca sull’acquisto del Dvd girato a Milano lo scorso febbraio e in uscita a fine settembre.
Photographic è un tuffo nel passato remoto dei Depeche Mode e Never Let Me Down Again è un vero e proprio colpo al cuore, sia per la bellezza della canzone (e della sua versione live), sia perché quasi tutti sanno che segna la fine del concerto.
Non è la smorfia di fastidio di Gahan, catturata dagli schermi in risposta al ritornello dei White Stripes cantato/stuprato dal pubblico ancora ubriaco dai mondiali di calcio, ad evitare altre uscite sul palco.
Lo spettacolo, cronometrico e studiato nei minimi dettagli, non lascia spazio ad alcun cambiamento di programma.
I neon s’accendono e non rimane che andarsene a casa, comunque soddisfatti per aver assistito a un miracolo che si ripete da ventisei anni (i DM sono in pista dal 1980) e che, come il buon vino, invecchiando migliora.
La scaletta
Intro
A Pain That I’m Used To
A Question Of Time
Suffer Well
Precious
Walking In My Shoes
Stripped
Home
It Doesn’t Matter Two
In Your Room
Nothing’s Impossible
John The Revelator
I Feel You
Behind The Wheel
World In My Eyes
Personal Jesus
Enjoy The Silence
Shake The Disease
Photographic
Never Let Me Down Again
Gli ultimi articoli di Massimo Garofalo
- Platonick Dive: recensione di Take A Deep Breath - October 23rd, 2024
- Francesca Bono: recensione di Crumpled Canva - October 17th, 2024
- Permafrost: recensione di The Light Coming Through - October 15th, 2024
- Visor Fest 2024 (dEUS, The Charlatans, The Mission, Kula Shaker...): ecco com'è andata - September 30th, 2024
- Monolake: recensione di Studio - September 27th, 2024