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Hollentor: recensione di Divergency

Dietro al monicker Hollentor troviamo un chitarrista esperto e profondamente amante delle sonorità metal come Glen Poland, che con Divergency si diverte ad ospitare una serie di musicisti di lusso in ambito metal e dintorni.

Hollentor

Divergency

metal

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Dietro al monicker Hollentor troviamo un chitarrista esperto e profondamente amante delle sonorità metal come Glen Poland. Al musicista piace molto creare una formula in cui è lui a scrivere le canzoni e a suonarle, salvo poi ospitare personaggi illustri che, con la loro bravura e fama, riescono a dare quel qualcosa in più al suo più che discreto prodotto.

Con Divergency le ospitate sono davvero parecchie: si va dal mitico Rudy Sarzo (Whitesnake e Quiet Riot) a Tim Ripper Owens (Judas Priest), passando per il prezzemolino James Lomenzo (White Lion, Megadeth e Black Label Society) e per gli ottimi George Lynch (Dokken) e Eric Peterson (Testament).

Con un parterre così prestigioso ci si aspetterebbe un disco monumentale, ma sfortunatamente le previsioni della vigilia non trovano conforto nella realtà, nel senso che le canzoni presenti in Divergency sono, tutto sommato, sufficienti, ma nulla più.

Ci si muove su coordinate molto care a quelle intraprese nel corso di questi ultimi anni da un indaffaratissimo Jeff Scott Soto, ma con meno propensione verso le melodie che sono assolutamente tipiche dell’ex cantante dei Journey.

 

All’interno del platter si scorgono momenti decisamente interessanti come quelli dettati dalla orecchiabile Behind The Wall che si caratterizza per un bel ritornello ed un ottimo riff di chitarra. Stessa cosa si può dire per Judgment Day che ha un tiro niente male ed una solennità di base che riportano indietro ai mitici anni ottanta. Per il resto ci si imbatte nei classici brani schitarrati il giusto, con buoni soli e ben cantati, ma privi di quel fattore inventivo che li renda memorabili.

Il confronto, ad esempio, con il lavoro fatto uscire qualche anno fa dal chitarrista dei Lamb Of God, Mark Morton, è impietoso. In quell’album, oltre ad una serie di ospiti clamorosi come Chester Bennington, Mark Lanegan e altri ancora, le canzoni si rivelarono delle vere e proprie perle. In questo caso, invece, si naviga a vista e si capisce che, alla fine dei conti, rimane ben poco. E questo si rivela un vero e proprio peccato originale, in considerazione della grande qualità degli ospiti coinvolti in questo particolare progetto che avrebbe meritato un’ispirazione maggiore. Sarà per la prossima volta.

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Francesco Brunale
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