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Gorillaz: recensione di Cracker Island

Con Cracker Island i Gorillaz di Damon Albarn ribadiscono in maniera convincente quella che è la loro identità pop alternativa, dando vita a una poliedrica, elegante e godibile centrifuga bio di suoni e contaminazioni adatta per tutte le stagioni e latitudini.

Gorillaz

Cracker Island

(Parlophone)

synth wave, elettronica, black music, chill out

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Durante una recente intervista, Damon Albarn è tornato a parlare di come riuscì a creare il tema principale della mega-hit Clint Eastwood, utilizzando un preset di suoni e ritmo contenuti nelle impostazioni di base di un Omnichord, strumento elettronico commercializzato dalla Suzuki all’inizio degli anni ’80. Un’intuizione geniale nella sua apparente semplicità.

A distanza di tre anni da Song Machine, Season One: Strange Time, e dopo aver annunciato il ritorno dal vivo coi Blur, chissà quale altra diavoleria elettronica avrà escogitato Damon Albarn nel nuovo long di inediti a firma Gorillaz (l’ottavo in ventidue anni) intitolato Cracker Island, edito per Parlophone e prodotto insieme a Greg Kurstin, Remi Kababa Jr. e al cofondatore Jamie Hewlett.

In quel perimetro magico ed enigmatico che racchiude il dualismo simbolico del concetto di isola che c’è e che non c’è, oltre al timbro vocale rassicurante e serafico del polistrumentista di Colchester, troviamo un suggestivo revival lisergico di melodie catchy che si intrecciano e dilatano alla volta di un ambiente polifonico “open space”, idoneo per fotografare la condizione identitaria dell’essere umano moderno nell’era di internet, quando attraverso metafore introspettive quando con un tratto tematico meno impegnativo.

“Che mondo è questo?”, si chiede Damon Albarn nella titletrack che apre l’album. Un mondo in cui la società, sempre più in balìa delle nuove forme di dipendenza digitale, è progressivamente regredita sotto l’aspetto interattivo-emotivo, finendo per isolarsi nei database di un sempiterno presente senza memoria né prospettive, e nelle infinite connessioni di una comunicazione globale in cui gli individui non riescono più a distinguere ciò che è reale dal virtuale, la pirite dall’oro.

“Trendin’ on Twitter’s what some of us living for, branches here and out, fucking revolver door, all of this is a joke? […] New gold, fool’s gold, nothin’ here is ever real, everythin’ will disappear”.

Per quanto riguarda invece lo sviluppo strumentale, che in Cracker Island agisce da elemento collante tra stesura testuale e creazioni visual, i Gorillaz ribadiscono in maniera convincente quella che è la loro identità pop alternativa, dando vita a una poliedrica, elegante e godibile centrifuga bio di suoni e contaminazioni adatta per tutte le stagioni e latitudini, passando dalle frenesie urbane di una Londra multietnica ai cieli grigi di una vecchia Berlino Est, per poi abbandonarsi agli eccessi e all’intramontabile sogno della California.

 

Attingendo a fonti culturali eterogenee e vantando come fiore all’occhiello la partecipazione di diversi sparring partner d’eccezione, Damon Albarn si affida, ancora una volta, alle imprevedibili risorse dell’elettronica e alle molteplici sfumature esotiche della black music (Cracker Island feat. Thundercat, The New Gold feat. Bootie Brown e Kevin Parker dei Tame Impala, Tormenta feat. Bad Bunny), mescolando disco funk, R&B, hip-hop, reggaeton misto a bossanova che profuma d’estate, groove jungle etereo ed energizzante e slowtempo chill-out dall’anima soul (Tired Influencer).

C’è spazio anche per l’effetto nostalgia di certa new wave-disco dagli echi Fleetwood Mac e New Order (Oil feat. Stevie Nicks e Silent Running feat. Adeleye Otomayo), mentre ogni velleità contemporanea sfuma nell’onirico e malinconico epilogo di atmosfere folk-semiacustiche (Skinny Ape e Possession Island feat. Beck), calando così quei titoli di coda che, forse, potrebbero far presagire un qualcosa di definitivo.

È dunque questa la finestra sul mondo dei Gorillaz, che nel loro modus operandi non illegale cercano di craccare certe logiche alienanti del presente discografico, come chi è abituato a guardare ciò che è in divenire sempre con occhi diversi, con un sentimento rinnovato, pur non rinunciando a surfare sulla lunga onda dell’esperienza. Come dice il proverbio: non è tutto oro quello che luccica. A parte il dente d’oro di Damon Albarn, che risplende attraverso quel sorriso sornione e contagioso da eterno Peter Pan. Che alla fine, vecchi lo diventiamo tutti, ma intelligenti no.

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Andrea Musumeci
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