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Foo Fighters: la recensione di Medicine At Midnight

Arriva Medicine At Midnight dei Foo Fighters, un disco che sa essere classico e contemporaneo al tempo stesso, spostando il loro baricentro emozionale verso un pop-rock mainstream ma non per questo meno piacevole.

Foo Fighters

Medicine At Midnight

(Roswell/RCA)

garage funky, dance rock, glam rock, hard rock, blues, synth-wave, heavy metal

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recensione Foo Fighters Medicine At MidnightA distanza di poco più di tre anni da Concrete And Gold e dopo un lungo periodo di gestazione (le registrazioni risalgono al periodo pre covid tra ottobre 2019 e febbraio 2020), è uscito finalmente Medicine At Midnight, il nuovo album in studio dei Foo Fighters, edito per Roswell/RCA ed anticipato dall’uscita dei singoli Shame Shame, Waiting On A War e No Son Of Mine.

Con Medicine At Midnight, decimo capitolo discografico, la band statunitense capitanata dal fondatore, frontman e leader Dave Grohl (che volendo potremmo ribattezzare anche come “Dave Grohl Band”, dato che è l’ex batterista dei Nirvana a dare l’impronta creativa all’intero songwriting) festeggia, con un anno di ritardo causa pandemia, il suo venticinquennale di attività, ripartendo da un carattere sonoro e distintivo retrò, ma più fresco e immediato rispetto allo spartito a cui ci avevano abituati, spiazzando di conseguenza fan e addetti ai lavori, al netto di quello che sarà poi la critica pro o contro.

I Foo Fighters, rockstar cosmopolite superstiti e custodi di quel retaggio culturale pre boomer, si ripresentano al grande pubblico del mercato mainstream, rappresentato perlopiù da quella fascia anagrafica ascrivibile alla generazione X (sarebbe alquanto ridicolo e patetico pensare che un gruppo di over 50 possa essere il simbolo dei teenager di oggi), in veste di crocerossine del genere rock, con un prodotto da banco composto da nove tracce della durata (fortunatamente) di poco più di mezz’ora, dai contenuti strumentali diversificati e, in buona sostanza, dalle atmosfere festaiole, eccezion fatta per gli episodi cupi ed intimisti di Shame Shame e Waiting On A War.

Nel clima di confusione e disagio che incombe sull’attualità e che coinvolge ormai da tempo tutti gli ambienti della nostra vita, i Foo Fighters tentano di sopravvivere agli schemi commerciali moderni cercando rifugio nelle solide sicurezze del passato, nel sollievo taumaturgico e nella leggerezza conservativa di quei suoni e di quelle contaminazioni che hanno contraddistinto alcune pagine storiche dell’enciclopedia del macro universo rock, spostando il loro baricentro emozionale verso un pop rock orientato alla radiofonia FM.

Certo, non che prima i Foo Fighters fossero dediti a chissà quale ricerca sperimentale e avanguardista, ma è doveroso fare un distinguo con quella porcheria disumana smerciata dai Biffy Clyro, tanto per capirci.

Insomma, una sorta di “musica per tutti”, nella forma in cui apparivano i Van Halen post 1984, quantomeno nell’intenzione, ma senza una vera e propria hit radiofonica con cui saltare tutti insieme, dimostrando di poter essere glam come i Kiss di metà anni Ottanta (Making A Fire), ma ovviamente in maniera del tutto alternativa e meno appariscente.

Medicine At Midnight è un disco che sa essere classico e contemporaneo al tempo stesso, attraverso il quale Dave Grohl e i suoi fidati compagni di viaggio vanno alla riscoperta di vecchi orizzonti, passando dalle esuberanti svisate blues hendrixiane (Clouspotter) alle stesure elettrofunky dei Talking Heads, dall’elegante romantic pop di Brian Ferry all’heavy metal di Motörhead e Metallica (No Son Of Mine), dalla psichedelia luccicante dei Pink Floyd di Us And Them al camaleontismo del David Bowie di Let’s Dance, dal tocco malinconico e sognante di Todd Rundgren e del John Lennon di Woman (Chasing Birds) alla versione macho 3.0 di Sheryl Crow.

La festa per le nozze d’argento dei Foo Fighters si chiude con la breve e intensa cavalcata di Love Dies Young (dal riff vagamente simile a quello di Where The Streets Have No Name), immaginando, perché no, di suonare sul tetto di un edificio, rievocando precursori quali Beatles e U2.

Ed è proprio Love Dies Young, il brano finale di Medicine At Midnight, a fornirci l’unica e sincera prospettiva di riflessione filosofica: “l’amore muore giovane”, frase che racchiude in sé la metafora della giovinezza, del sogno adolescenziale e dell’inevitabile destino che accomuna tutti gli esseri umani, ovvero quello che nello stesso momento in cui nasciamo, cominciamo a morire. È così per i musicisti e le band, che nello stesso momento in cui diventano famosi, iniziano a scivolare verso il dimenticatoio. Destino che, almeno per il momento, non sembra intaccare la longevità artistica dei Foo Fighters.

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Andrea Musumeci
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