(Cd, Marsiglia Records)
post-rock
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Il sound, la ricerca formale, l’accuratezza stilistica. Sono cose che di sicuro non mancano (o di cui non è permesso liberarsene) alla stragrande maggioranza delle band italiane dedite a quel tipo di rock al ralenti con tanto di dovuta attenzione per i particolari, per le sfumature. E in questa occasione (in questo senso) anche Pequod non fa una piega. C’è sempre tutto ciò che “dovrebbe” esserci: il post-rock anche come ‘stato mentale’; appuntamento con l’ineluttabilità del riposo, luogo (o non-luogo) ideale per rilassarsi.
Piuttosto che l’abbondanza dei decibel o delle note, si è preferito la discrezione del bordone controllato, soppesato. Ancora: l’ambient, l’atmosfera (e la sua creazione) come sottofondo costante piuttosto che la saturazione cubica dello spazio/ambiente. (Sono queste le scelte – più o meno consapevoli – di chi consapevolmente sa di appartenere a un genere – a questo genere).
E ancor più che in altre occasioni – la band stessa si autodefinisce “gruppo da colonna sonora” – si avverte, ahimè, la necessità di qualcos’altro: insomma, Pequod non basta a sé stesso perché carente di matericità. Dove sono le immagini? Dove la caratterizzazione spazio-temporale? All’interno di quale incrinatura storica rischiano di perdersi le sue ‘tracce’? In effetti si corre il pericolo che i Dresda (e la loro musica) spariscano in ‘dissolvenza’, allo stesso modo di un qualsiasi piano cinematografico di remota scelta.
Se il cinema è l’arte di evocare fantasmi, Pequod ne risalta l’inconsistenza. Anche se con classe.
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