Dream Theater
Dream Theater
(Cd, Roadrunner Records)
progressive metal
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Si fa sempre fatica a recensire un nuovo disco dei Dream Theater, che con questo ultimo album omonimo sono arrivati al dodicesimo capitolo in studio, considerando che da una parte riuscire a parlare male di musicisti così tecnicamente indiscutibili è da folli, mentre dall’altra proprio perché musicisti indiscutibili ti aspetti ogni volta un capolavoro e si rimane sempre un pelo insoddisfatti alla fine di un loro disco da, diciamo, almeno una decade.
Tuttavia i loro album sono ancora in cima alle classifiche, anche qui in Italia. Onestamente non mi aspettavo certo una rivoluzione e la band statunitense non fa altro che riproporre il suo stile degnamente, senza cadere in evoluzioni pop come per esempio sono precipitati, citando illustrissime star del progressive, i Genesis abbracciando un successo più commerciale.
Dream Theater ha un’apertura cinematografica di due minuti e mezzo con l’orchestrale False Awake ripiena di archi spinti a mille, nata apposta per aprire il loro nuovo tour mondiale. Lo strumentale lascia subito spazio alla chitarra di Petrucci quando scuote drammatico il secondo brano, The Enemy Inside, un roccioso brano veloce contornato dal melodioso cantato di James La Brie. I toni sono più soft in The Looking Glass, canzone dalle tinte rock eighties piuttosto apprezzabile che riporta alle atmosfere degli esordi.
I sei minuti della strumentale Enigma Machine è una serrata contorsione prog in cui i virtuosismi si sprecano. Su The Big Picture ci si dividerà sull’eccessiva delicatezza del brano, forse troppo melenso, malinconico e pulito, ma anche di una bellezza incantevole. Le ariose e pregne cavalcate chitarristiche e i ritmi forsennati al basso di Myung sono un marchio di fabbrica inconfondibile: ecco arrivare Behind The Veil in cui Petrucci si sfoga con assoli rocciosi sull’ottima verve del suo vocalist. In Surrender To Reason c’è forse fin troppa roba, tanta, troppa. Al contrario di Along for the Ride che sembra stranamente dotata di una certa semplicità.
Dopo 8 brani è il momento di Illumination Theory, suite di 19 minuti che conclude quest’opera in un gran finale diviso su cinque tempi. Primo minuto orchestrale, virtuosismi di strumenti a corda, turbinii psichedelici di tastiera e chiusura magistrale. A fine brano una ventina di secondi di silenzio e ancora qualche minuto con Rudess e Petrucci che in solitaria danno l’arrivederci.
Un ascolto senza le sperimentazioni caotiche di Systematic Chaos e Octavarium, e che recupera omogeneità senza perdersi eccessivamente in narcisismi cronici. Il pubblico dei Dream Theater si dividerà ancora una volta, chi li darà per morti, chi senza idee, chi dirà che almeno c’è una ripresa e chi non sarà mai contento abbastanza. Ma come sempre si aspetterà con curiosità la loro prossima creazione.
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