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Dornik: recensione disco omonimo

L’inglese Dornik con questo debutto omonimo pare sceso direttamente da una Motown in upgrade, dieci tracce che omaggiano un pop-funk-disco innamorato di jazz che da nulla è già scuola

Dornik

s/t

(Prm Records)

funk-disco-pop

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Dornik-recensioneSi è fatto notare nelle shadows delle notti inglesi, dei fondi bui dei clubbing per la sua grazia soul/jazz tanto che la sua trasposizione vellutata fa già scuola tra le nuove leve dell’underground black, di quella che tiene compagnia con le proprie visioni rarefatte.

La Prm Record si è invaghita di questo batterista che frequenta l’electro-soulness di Wave Jessie, e che ora, con solo il suo nome Dornik, debutta in maniera travolgente con un disco omonimo elegantissimo, nero dalla punta dei capelli ai piedi, un funk pop che senza inventarsi nulla che già non si conosca, fa ballare, sognare e zittire con le sue linee spezzate, sincopaticamente psichedeliche tra gli 80 di Michel Jackson Mountain, Stand in your line, gli zig zag imprevisti di un Prince in fregola Parade, Around the world in a day, Blush, Chainsmoke e le anarchie sonore di Frank Ocean, dieci tracce dal profumo vintage che danno assuefazione delicata e gentilissima.

Il cantante e strumentista inglese trasmette soulness e brividi a manciate, una voce asessuata che si insinua nell’ascolto come una entità mid-spirituale, con quel respiro internazionale e la “rettitudine” di un estro luminescente che sembra appena sceso, catapultato, dal settimo cielo di una Motown in upgrade.

 

 

 

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Max Sannella
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