Depeche Mode
Sounds of the Universe
(Cd, Mute)
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Eccoci finalmente al dodicesimo album in studio dei Depeche Mode che, messe da parte le burrascose vicende personali, di perdere un colpo proprio non ne vogliono sapere. E men che meno questa volta!
Sounds of the Universe – chiariamolo subito – è un bel disco, maturo, corposo, con molta sostanza. E anche con molta apparenza. E’ fatto da tredici belle canzoni, molto atmosferiche e sognanti, meditative senza rinunciare a (leggere) pulsazioni ritmiche.
Messi da parte i rumorismi noise di Playing the Angel, i Depeche Mode di oggi sono molto più attenti ai dettagli sonori che non all’impatto ritmico delle loro canzoni. E men che meno se ne fregano (stavolta) di cercare cori da stadio, tanto che davvero la filastrocca/cantilena/preghiera Wrong è probabilmente la canzone più adatta a essere pubblicata come singolo, oltre ad essere la più robusta ed energica dell’intero lotto.
Sounds of the Universe è fatto di brani solo apparentemente fragili, mente in realtà la sua materia prima è composta da 13 canzoni spesso davvero belle e comunque il cui livello è superiore alla media di un album dei Depeche, che nel recente passato ci avevano abituato a una manciata di singoli mozzafiato intramezzati da qualche riempitivo.
Come anche in Playing the Angel, anche questa volta Dave Gahan ha voluto mettere la sua firma e sono tre le canzoni firmate da lui invece che dal solito Martin Gore. Hole the Feed, ad esempio, è composta proprio da Gahan in combutta col suo fido Christian Eigner, batterista ufficiale dei Depeche nonché coautore del recente album solista di Dave. Si tratta di un blues acido e minimale che conferma, anche per il fatto di arrivare seconda in scaletta, ribadisce i ruoli dei tre titolari del marchio Depeche Mode: Martin Gore compositore principale, Dave Gahan front-man e compositore secondario e Andrew Fletcher economo e business planner del gruppo, oltre che con l’ingrato compito di tentare di evitare che Gore e Gahan s’accapiglino di continuo (Fletcher di fatto non suona alcuno strumento se non qualche tastiera per produrre texture, contributo che rimane pressoché identico anche sul palco).
Se vogliamo cercare qualche parente stretto di quest’album nell’albero genealogico dei Depeche Mode, dobbiamo cercalo tra le pieghe proprio di Playing the Angel (e in particolare in Lilian) e nelle trame pop post industriali di Same Great Reward e Black Celebration, in cui ancora Gore non aveva scoperto che poteva giocare ad essere una rockstar con una chitarra a tracolla, uscendo quindi da dietro i sintetizzatori.
Il sound di quest’album, forse mai come questa volta così curato, è ricchissimo di dettagli che si possono scoprire solo dopo attenti e ripetuti ascolti, meglio se in cuffia e ad alto volume. Realizzato prevalentemente, ma non solo, con sintetizzatori analogici e con vecchi Moog, ben si presta ad essere apprezzato con impianti di qualità, quasi rinnegando la possibilità che invece molto probabilmente la maggior parte degli ascoltatori lo sacrificheranno in insipide cuffiette e lo appiattiranno comprimendolo in mp3. (I primi ascolti dell’album li ho ottenuti da una versione mp3 a 192 kbps, ma ben presto sono riuscito a rintracciare una versione a 320 kbps, che rende giustizia al certosino lavoro di costruzione sonora fatto in studio, fa addirittura cambiare di senso alcuni brani e non ha fatto altro che mettermi addoso la smania di acquistare e spararmi a tutto volume la versione in DTS).
La forza e la grandezza dei Depeche Mode sta nell’essere sempre uguali a sé stessi e sempre diversi, sempre riconoscibili senza mai ripetersi, sempre un passo distanti a quello che avevano fatto in precedenza senza mai creare rivoluzioni che possano disorientare il pubblico. E anche Sound of the Universe in questo senso non fa eccezione.
Ultimo, ma non ultimo, segnaliamo che Sounds of the Universe esce il 21 aprile in una multitudine di formati, compreso un box set zeppo di rarità e con audio multicanale da leccasi i baffi.
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