David Bowie
Blackstar
(Sony)
Rock
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Devo averlo letto su uno dei giornaletti di gossip di mia suocera che, in una pagina di decenza, segnalava in dei trafiletti le prossime uscite letterarie e discografiche: l’8 gennaio arriverà Blackstar, il nuovo di David Bowie.
Noooo, non ci posso credere!
Ho ancora nelle orecchie il coretto “lallallala” di Valentine’s Day accompagnato dal picchiettare delle dita del mio collega sulla scrivania ogni volta che Virgin Radio trasmetteva il singolo di maggior impatto di The Next Day, ossia dalle 4 alle 5 volte al giorno.
Ci risiamo di già. Eppure sarei stato pronto a scommettere che il Duca Bianco avrebbe atteso, e lasciato attendere, molto più a lungo.
La title-track concede appena quindici secondi di immaginazione prima che la sua voce inconfondibile mi faccia schizzare in testa visioni psichedeliche che seguono l’andamento di una musica indecifrabile a cavallo tra elettronica vagamente arabeggiante e sax.
Dopo aver divorato quella memorabile testimonianza di Ava Cherry (nei ’70 corista e per un periodo convivente di Bowie) che per la biografia di Mick Jagger scritta da Christopher Andersen raccontò dei frequenti incontri sessuali tra il leader degli Stones e Ziggy, scoperti con estrema sorpresa –forse!- anche da sua moglie Angie, mi vengono in mente le folle oceaniche che da decenni acclamano i due sessuomani in questione. O quelle che impazzivano e continuano a farlo per gay incalliti come Freddie Mercury o Elton John e mi chiedo: milioni di ragazzi e uomini che dentro uno stadio o una cuffia impazziscono per questi iconici rocker dall’ormone alternativo sono probabilmente gli stessi che strisciano con la schiena contro il muro se ne incontrano di non celebri in un club o in un pub? E qui si potrebbe aprire un trattato sociologico che, però, lasciamo ai posteri.
Noi andiamo avanti con ‘Tis A Pity She Was A Whore, un pezzo non certo facile che ancora mescola l’elettronica e una ritmica quasi frenetica al sax ipnotico di Donny McCaslin che si affianca alla timbrica di Bowie per nulla riverente e, anzi, la punzecchia in quello che diventa un dualismo costruttivo alla Steve McQueen vs Paul Newman in Inferno di Cristallo, che non fa nient’altro che arricchire in maniera sproporzionata il prodotto finale.
Lazarus, in cui il sassofono di nuovo si erge sullo sfondo, ha più orecchiabilità. Si tratta di un pezzo scritto per un musical off-Broadway di Bowie che, quindi, suona già familiare agli accoliti più attenti.
Proprio come la successiva Sue (Or In A Season Of Crime), già inclusa nell’antologia Nothing Has Changed, che a una ritmica complessa sovrappone una melodia altrettanto impegnativa in quello che forse è il pezzo più “concettuale” dell’intero album.
Girl loves me è caratterizzata dagli archi e da una melodia meno martoriata che sembra portarci per mano in una dimensione più tendente all’ordinarietà, il cui concetto lessicale è da non confondere assolutamente con quello di ordinarietà, e che introduce Dollar Days, certamente il pezzo più “normale” che, accompagnato da una chitarra acustica e dal solito sax, potrebbe imperversare anche su RDS o Rete 105.
I Can’t Give Everything Away, con il suo beat che accarezza la dance, ci accompagna fuori da un altro lavoro perfettamente riuscito che lascia il mio elucubrare libero di spostarsi al secondo pensiero ansiogeno cui mi porta immancabilmente questo signorotto di 69 anni con ancora così tanta voglia di mettersi in discussione.
Nei Settanta in Inghilterra avevano David Bowie, i Rolling Stones, gli Who, i Queen, i Deep Purple, tanto per citarne alcuni. In Italia avevamo Peppino Di Capri, i Dik Dik, la P.F.M., i Cugini di Campagna, i The Rokes.
Loro col tempo hanno saputo sfornare gli Oasis, i The Cure, i Duran Duran, i Muse, mentre noi li abbiamo rincorsi con Gigi D’Alessio, i Pooh e i The Kolors.
Va tutto bene, per l’amor di dio.
De gustibus.
Ma a chi vorrebbe rispondermi che però noi abbiamo anche i Subsonica, Vasco Rossi, Ligabue, Jovanotti e Alessandra Amoroso (gran bella ragazza per i miei gusti), ruberò comunque la parola di chiusura e la spenderò per augurarmi che David Bowie – Mr. Stardust continui ad avere gambe e polmoni abbastanza forti per continuare a recarsi in studio di registrazione per il prossimo decennio almeno.
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