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Dang Dang: recensione di Liar

Con questo nuovo album, i Dang Dang danno vita a un'ibrida texture stilistica dalle molteplici nuances sonore, rievocando l'epica di quel sound synth-centrico che già quarant'anni fa guardava al futurismo.

Dang Dang

Liar

new wave, synth wave, elettro-rock, kraut-beat, italo-disco, post-punk, afrobeat, hi-nrg, dub, disco-funk, etnica, electronic dance music, tribal-jungle

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A sette anni di distanza dall’esordio con You Should Be Happy e a quattro dal sophomore Bellaria, il collettivo romagnolo Dang Dang manda alle stampe, sotto autoproduzione, il suo terzo full-lenght intitolato Liar, anticipato dall’uscita del singolo Filthy White Lies.

Con questo nuovo album, concepito durante la pandemia, nel sentimento di impotenza misto a malessere e sgomento che regnava in quei lunghi giorni di isolamento forzato, i Dang Dang provano a rigenerare la propria ispirazione calligrafica, a rimettersi in carreggiata, focalizzandosi sulla siccità empatica del presente e riflettendo su esistenze – che possono essere quelle di ognuno di noi – in bilico tra desiderio di ripartenza e paura di ricominciare.

Una sorta di revival musicale quello proposto dal quartetto synth-wave cesenate – formato da Lara Zambelli (voce e synth) Fabio Borroni (chitarra, basso, voce), Nicola “Rospo” Bustacchini (basso, voce) e Matteo Castagnoli (chitarra, synth, drum programming, voce) – che nelle sue dieci tracce (tra cui una rivisitazione in chiave electro-dark di Vamos a La Playa dei Righeira) si concede totalmente alle onde remote della nostalgia, alla fertilità rassicurante del passato, rievocando l’epica indelebile di quel sound synth-centrico che già quarant’anni fa guardava al futurismo con l’idea ambiziosa di diventare mainstream e rendere impopolare il genere rock.

Così, sulla scia di un entusiasmo retro-emozionale, i Dang Dang danno vita a un’ibrida texture stilistica dalle molteplici nuances sonore – altro che sangiovese e ballo liscio – riuscendo a plasmare un vero e proprio spazio di raccordo tra linguaggi trasversali e capillari, andando a determinare forme già collaudate di integrazione: si va dai suoni grassi e pulsanti della musica elettronica europea (disco hi-energy, synth pop, italo-disco) al chitarrismo tagliente e metallico della new wave e del post-punk, dall’enfasi evocativa e decadente della gothic wave alle diverse sfumature della black music (afrobeat, disco-funk, folk etnico), dai loop “tunz tunz” percussivi della techno ai beat ipnotici della psichedelia techno-tribal-jungle.

Il tutto arricchito da magnetiche e seducenti armonizzazioni vocali, a cui si aggiungono oscurità cerimoniali griffate Depeche Mode, eccitanti stravaganze disco-funk alla Talking Heads (Body Reaction, Cheap Chinese Clothes) e sequenze robotiche di matrice kraftwerkiana (Filthy White Lies), per poi stemperarsi nei territori umorali dub (After The War) e confluire in un denso e sulfureo spiritualismo elettro-blues (Dang Dang).

Le intrusioni di sax, invece, contribuiscono ad assecondare certe sensazioni di inquietudine e malinconia, quasi a voler accentuare il peso delle pressioni sociali e di tutte quelle bugie – cosiddette bianche – con le quali continuiamo a ingannare noi stessi e che di fatto annullano la nostra vera identità (“I try to cheat myself, I’m a liar”), andando spesso a discapito delle aspettative, dei sogni (“why should I kill my dreams, running for paying all the bills of life”), delle diversità che ci circondano e di quei sentimenti sacrificati sulle strade effimere del materialismo (“bless you and your fancy car, driving through the empty roads”).

Con il progredire della modernità è cresciuta l’importanza dell’apparire, dell’edonismo effimero. Siamo parte integrante di una società che oggi vende sogni e non solide realtà, in cui ciascuno di noi recita più ruoli, indossando l’ipocrisia di maschere virtuali, digitali, impersonali, asfissianti, e sottolineando di conseguenza la continua tensione tra bugia e vita. “Mi sono vergognato di me stesso quando ho capito che la vita è una festa in maschera, e ho partecipato con la mia vera faccia”. Franz Kafka.

Ci ritroviamo, dunque, coinvolti in esistenze quantomai confuse e anonime, sempre più stranieri in patria (come Mersault di Albert Camus), intrappolati e soffocati negli omologati dress-code della routine e in ambienti sempre più ostili che ormai non riconosciamo più (“I feel like a stranger in my homeland, smell like cheap chinese clothes”).

Ed ecco che la sola alternativa a tutte queste sterili dinamiche di distruzione dal basso sarebbe quella di tornare a valorizzare l’unica cosa che possediamo veramente, ovvero il nostro tempo (“after the war has passed on our bones, and we have learnt that time is all we have”).

 

facebook/dangdang.band

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Andrea Musumeci
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