Clone
Cl.1
(Little Cloud Records / 5BC Records)
rock, abstract, post-punk
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Si scrive CL.1 e si legge Clone.
È un interessante album prodotto da Martin Bisi, figura leggendaria nell’underground newyorchese per aver lavorato con Swans, Sonic Youth, Helmet e Cop Shoot Cop. Musica, letteralmente, per le mie orecchie. Ne citiamo solo alcuni e molti altri verranno citati in questa recensione. È una promessa e anche una minaccia. Del resto, la scelta del nome Clone non ti mette di certo al riparo da paragoni e confronti che possono rivelarsi lusinghieri o impietosi. I nostri però sembrano sapere il fatto loro. Della somiglianza con i grandi del passato hanno fatto un vessillo da sventolare con orgoglio.
L’apertura è affidata a Room of Tears, con il drumming essenziale, incalzante di Gregg Giufree che sin dalle prime note stabilisce un livello di tensione emotiva che attraversa tutte le 10 tracce dell’album.
La voce rauca e potente di LG Galleon, già al lavoro con i Dead Leaf Echo, in certi passaggi ricorda persino un altro Greg(g), ovvero Mr. Dulli, ma le analogie con gli Afghan Whigs si fermano qua, perché i Clone suonano decisamente “eighties” (citazione). Post punk delle origini, new wave, combat rock. Immutable rientra comodamente in ciascuna delle categorie.
Dazzler è un brano che al primo ascolto colpisce nel segno, la voce di Galleon ha quel tono angosciato e urgente che rende l’ascolto dell’album in alcuni passaggi impegnativo ma, almeno per chi scrive, questo non è necessariamente un difetto.
C’è un buon equilibrio tra la chitarra di Dominic Turi e quella di Galleon. Distorta l’una, pulita e carica di riverbero l’altra, con un uso della leva del vibrato che richiede nervi (mediani) saldi. Il basso di Max Idas fa da collante, preciso e mai sopra le righe. Dividing Line è un attacco frontale all’America di Trump, con le parole “fire”, “riot” e “Donnie” ripetute come un mantra. Ricorda i primissimi U2, citati non a caso tra le principali influenze del gruppo, insieme a Sound e Gang of Four, nomi che negli ultimi anni sembrano godere di un revival meritato e in un certo senso misterioso (argomento che meriterebbe un dibattito approfondito)
Nell’intro di Still Life sembra di sentire i Killing Joke, mentre lo sviluppo del brano rimanda ai Cure epoca Seventeen Seconds. L’introspettiva Salt, Sea, Strain non sfigurerebbe nella tracklist di October.
Aggiungete una spruzzata di My Bloody Valentine ed ecco un quadro pressoché completo del panorama sonico della band di Brooklyn. Redeemer è un bel brano con chitarre shoegaze su una ritmica essenziale e incalzante e un giro di basso che sembra strappato dalle dita di Peter Hook. Insides e Triage tirano fuori l’aspetto più rabbioso dei Clone, mentre la conclusiva Resurrection è probabilmente l’episodio più compiuto, con un bel ritornello dove il cantato secco, minimale, fa da contraltare agli intrecci armonici di basso e chitarre.
In conclusione: nonostante le citazioni dei maestri del genere superino quasi il numero totale delle tracce, Cl.1 è un buon album. Probabilmente non cambierà il destino del rock, ma sarebbe ingiusto relegarlo nella categoria ‘citazionismo’.
Il songwriting risulta solido rispetto alle centinaia di contemporanei che attingono a piene mani dagli anni ’80 senza aggiungere un tocco di personalità, che rappresenterebbe il minimo sindacale, a meno che non si voglia passare per cloni.
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