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Chaigidel e Neraterræ: recensione di Lamaŝtu

Lamaŝtu è l'enigmatico album di Chaigidel e Neraterræ. I due musicisti uniscono le forze per creare un'opera ritualistica e fortemente evocativa.

Chaigidel e Neraterræ

Lamaŝtu

(Cyclic Law)

dark ambient, ritual, drone ambient

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Fingete di tornare molto indietro nel tempo, immaginate di aprire gli occhi e trovarvi immersi in una realtà completamente diversa dalla nostra, siete soli adesso, senza un briciolo di connessione internet, senza lo spazio virtuale di cui non sappiamo più fare a meno, soli con voi stessi e con i vostri demoni, costretti a guardarli in faccia e a confrontarvi con loro in un terreno vischioso, in un un mondo maledetto, arcano ed oscuro dove la teoria di causa/effetto non è governata dalle leggi della fisica ma da una logica (a suo modo) altamente spirituale.

Questa è la sfida di Chaigidel e Neraterræ, Lamaŝtu, il nuovo disco su etichetta Cyclic Law ne è testimonianza.

Neraterræ (Alessio Antoni), originario di La Spezia, ha già alle spalle una buona discografia, Chaigidel (Mattia Giovanni Accinni) è un artista piemontese devoto agli aspetti più evocativi della musica, i due percorsi si intersecano adesso per realizzare un’opera ritualistica, assai evocativa, ricca di vari elementi sonori e diversi scenari.

Il titolo dell’album è Lamaštu, dea venerata nell’antica Mesopotamia, un demone femminile, una creatura malevola di rango divino (o quasi) che secondo le credenze, minacciava le partorienti e tentava di rapirne i figli durante l’allattamento per poi masticarne le ossa e succhiarne il sangue.

Corpo villoso, testa leonina, denti e orecchie d’asino, lunghi artigli da rapace, spesso raffigurata in ginocchio o in piedi sopra un asino mentre allatta un maiale o un cane tenendo in mano dei serpenti, si narra che divorasse anche gli uomini, ne bevesse il sangue, fosse portatrice di incubi e malattie, distruggesse vegetazioni ed infestasse laghi e fiumi ma soprattutto Lamaštu non compiva tali nefandezze per ordine divino, a differenza di altre figure demoniche del folclore mesopotamico, agiva di sua sponte.

È facile riscontrare quindi un legame ancestrale tra vita, sangue e morte incatenato al concetto di maternità ma anche una sorta di repulsione per le funzioni biologiche del nostro corpo (sangue appunto, vomito, feci) come rappresentazione tangibile della negazione della vita e dell’appropinquarsi del trapasso.

Il lungo preambolo è del tutto necessario per l’ascolto in cuffia, meglio se al crepuscolo, di questo disco che induce ad un vero e proprio stato di trance mentale.

La musica cupa e mefistofelica del duo sembra voler descrivere un macrocosmo per certi versi inaccessibile dove la comprensione delle cause che determinano gli effetti è spesso sconosciuta, dove il nesso tra le cose sembra avere confini labilissimi.

Mantra neri, droni organici, canti tuvani, campane tibetane, doumbek, balaban, maaponim, shofar, tamburi rituali sono gli strumenti terreni scelti per squarciare il terreno delle credenze e della comprensione umana, per raggiungere gli stati più puri e oscuri dell’essere attraverso componimenti (perché è impossibile definirle canzoni) ritual-ambient (Malkhuth), occult ritual (Eloi Eloi Lama Sabacatni e Da’at), post industrial (Purson) e drone (Satariel).

Lamaŝtu è un album ostico, misterioso e dannatamente (è il caso di dirlo) primitivo, sconsigliato a chi dorme ancora con la luce accesa perfetto per i maudits contemporanei, quelli che si lasceranno inghiottire dai magma primordiali, quelli che all’effimero universo dei social preferiscono il buio dell’anima.

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