Brian May & Kerry Ellis
Mantova, Palabam, 27 febbraio 2016
live report
Vista dall’altra sponda del Mincio, Mantova sembra una Praga in miniatura, con quel suo profilo così caratteristico che fa tanto brand per magneti da frigo.
Stasera al Palabam c’è un evento di quelli speciali, un Re Mida della storia del rock è venuto a mangiare tortelli di zucca e salame all’aglio.
Lui è Brian May, e solo a pronunciare il suo nome mi tornano in mente le parole del mio amico Anthony che, ogni volta che mi ospita nel suo appartamento di Ealing Broadway (che per la cronaca è un sobborgo di Londra), mi racconta di come i vetri tremano ogni volta che qualcuno suona a Wembley e, immancabilmente, di quella volta che si mise in veranda ad ascoltare i Queen durante un concerto che ormai fa parte della storia contemporanea.
Kerry Ellis invece è una ragazzina che ha circa la mia età, nata e cresciuta come attrice di musical, tra cui a caso voglio citare Cats e, vabbè, anche We Will Rock You.
Quando avvengono questi incontri artistici, di norma, il giudizio si spacca in due, anzi in tre. Da un lato c’è chi ritiene che sia un bene che un’icona sappia mettersi in discussione e, divertendosi, tiri fuori il meglio di sé o, quantomeno, quel che davvero di sé ci tiene a esprimere. Dall’altro, ovviamente, c’è chi blablaeggia le solite teorie da commercialista. E poi c’è qualcuno che rimane nel mezzo e, se non è troppo filosofo, stizzito e un po’ saccente sogghigna alla vecchiaia dell’eroe.
Fatto sta che, com’è come non è, tutti osannano al gladiatore -presunto- rammollito.
E lui stasera ha una mise informale, quasi fosse un concerto da dopocena.
Anche la scenografia è semplice, un tendone stellato, un maxischermo e qualche cero acceso. Tutta l’attenzione è puntata sulla cassa della sua chitarra acustica e sulla splendida voce di una bella bionda.
La set-list è piuttosto frastagliata, se c’era qualcuno che si aspettava un unplugged dei Queen sarà rimasto deluso.
In effetti qualche brano storico c’è, ma sembra scelto e piazzato con cura proprio per non dispiacere completamente i più, che dovranno aspettare l’estate per sentire le versioni elettriche con l’ugola di Adam Lambert che farà vibrare i vetri di Piasoea (al secolo Piazzola Sul Brenta).
Per la grossa parte, stasera, si pesca tra cover variegate e chicche della Regina rimaste sotterrate per decenni da hit e anthem immortali.
Alle 21:10 le luci si spengono dentro un palazzetto vuoto per più della metà, le due tribune laterali sono addirittura chiuse (mi era capitato qualche anno fa con i Dream Theatre al Forum di Assago), quella frontale ha diversi buchi e solo la platea si presenta gremita.
I due anfitrioni si presentano a vicenda e in italiano, con poche parole ma imparate bene, la “favolosa” Kerry e la “leggenda” Brian.
Si parte con I (Who Have Nothing) di Ben E. King cui segue I Loved A Butterfly, testimonianza dei Queen con Paul Rodgers (la versione originale si intitolava Some Things That Glitter).
Per i Kansas di Dust In The Wind, Kerry chiede la traduzione. “Polvere” le gridano in molti . Brian May, intanto, inizia a sciogliere le dita nel primo assolo della serata.
Born Free, scritta nel 1966 per il film omonimo, valse a Matt Monro un premio Oscar e Mr. May la introduce con un sentito discorso animalista. Non a caso il chitarrista britannico è il più famoso tra i firmatari di una recente petizione online per salvare il nostro Corpo Forestale dello Stato, che a breve sarà disciolto da una leggina approvata en passant un mesetto fa.
Somebody To Love dà la prima vera scossa e non certo per la carica maggiore della chitarra elettrica. Sul finale, dove a un acuto segue una tonalità piuttosto bassa, lei dirige il pubblico con le braccia come una direttrice d’orchestra.
If I Loved You di Josh Groban (classici sono le versioni della Streisand e di Sinatra) è, a parere di May, la canzone più bella che sia mai stata scritta, che poi si lancia in Tell Me What You See, una cover dei Beatles che chiarisce come nulla di semplice vada in scena stasera. La suona con una mini chitarra elettrica identica a quelle autografate che si trovano a 250 euro negli stand ufficiali, “we sold 11 in 10 minutes tonight”.
Ancora un pezzo di Barbara, The Way We Were, è accompagnato dalle foto di Kerry e Brian bambini, o almeno si suppone che siano loro.
E quindi si vola con Something, sulla quale voglio spendere due parole per contestare the man su quel fatto della più bella canzone mai scritta. L’esecuzione è perfetta e, come molti altri, la filmo con l’iphone per conservarmela per sempre, anche se Kerry –perché è donna- cambia il soggetto facendolo diventare un “he”. Questa cosa non l’ho mai capita.
Bye Bye Love è ritmata, è divertente, è chiaramente una cover degli Everly Brothers ma ci scommetto che ai più fa tornare in mente la versione migliore di Simon & Garfunkel.
Qualcuno si commuove per Life Is Real, brano scritto da Freddie Mercury, spezzato durante l’esecuzione da un applauso quando l’immagine gigantesca dell’uomo in canottiera riempie lo schermo. Ho come la sensazione che ci siano delle canzoni che Brian May sente più di altre, e questa è una di quelle.
Sarà un caso ma, subito dopo, per lui è tempo di una pausa.
Così Kerry può imperversare con I’m Not That Girl e, sarà un caso anche questo, la signora si alza per la prima volta dallo sgabello per prendersi il proscenio.
Subito dopo è invece la volta di Brian che, con l’elettrica, nella penombra esegue il tema di The Godfather in quello che è forse il momento più suggestivo dell’intera esibizione. La mano ormai va da sola. Inizia a rockeggiare e, gigioneggiando con qualche cliché di troppo, fa vedere a tutti come si fa a scaldare gli animi semplicemente passando da un do a un do di settima mentre, impettito, gira il palco per raccogliersi gli applausi.
Per la successiva Love Of My Life chiede l’aiuto del pubblico che, eccitato, lo accontenta a tal punto che, quando Kerry torna in scena, può rimanersene in silenzio per tutta la seconda strofa.
E dopo l’immancabile selfie, stavolta stereoscopico, Brian insegna a tutti il coretto di Roll With You, “lallala… it’s very simple”. Anfatti.
Il battito di mani che scandisce We Will Rock You fa finalmente saltare su dalle sedie un pubblico compito come mai mi era capitato di vedere, neanche nei tour solitari di Springsteen che vanamente si dannava a supplicare silenzio e compostezza.
Per No One But You succede quello che davvero mai mi sarei aspettato: si accendono due (nel senso proprio di due) accendini che, in mezzo ai display di tantissimi telefonini, sono belli belli belli.
Mi è dispiaciuto davvero tanto constatare che nel pubblico l’età media era piuttosto alta. Le nuove generazioni al calar del sole sono andate altrove, a bere vino da apericena in qualche figacciosissimo locale della città o a stordirsi in qualche bugigattolo buio accecato dalle stroboscopiche al ritmo di unz unz unz unz.
Noi, invece, ci siamo radunati qui per compiacerci di tempi e splendori che, ne siamo convinti e fieri, non torneranno più.
Invece, con ogni probabilità, è semplicemente la solita ruota che gira.
E così, mentre le ultime note ci salutano, mi sembra che tutti stiano facendo la mia stessa riflessione.
Ma è solo una Piccola Pazza Cosa Che Si Chiama Amore.
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