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Blonde Redhead: recensione concerto a Pescara, 19 luglio 2016 (Onde Sonore Festival)

I Blonde Redhead stanno (ri)portando in tuor Misery is a Butterfly, il loro capolavoro del 2014, con un accompagnamento d'archi. Ma il concerto ha raffreddato gli animi dell'accaldato pubblico pescarese

Blonde Redhead

Pescara, Onde Sonore Festival, 19 luglio 2016

live report

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Le foto dell’articolo sono di Ivan Masciovecchio

blonde-redhead-recensione-concerto-pescara-2016-19-luglioInnanzitutto la buona creanza. Bisognerebbe ricordarselo sempre, che tu sia una rock band di culto o l’ultimo degli sconosciuti di Ariccia; soprattutto quando ci si esibisce davanti ad una platea che aspetta da oltre un’ora l’inizio di un concerto previsto sui manifesti per le ore 21 e successivamente posticipato – con indicazioni riportate esclusivamente sulla pagina Facebook della rassegna – prima alle 22 e poi alle 22.30; e che effettivamente comincerà soltanto alle 22.50 per concludersi tre minuti dopo la mezzanotte, bis compreso.

Le buone maniere, dicevamo. Sul palco, però, non c’erano Peppe Servillo con i suoi Avion Travel, che della classe e della buona creanza hanno fatto un proprio tratto distintivo riproposto ad ogni esibizione live, ma i ben più algidi Blonde Redhead che invece, tramite la vocalist Kazu Makino, pronunciano le prime parole solo sul finale di set. Non di scuse per il ritardo, giammai, bensì di quasi stupore che ci fosse qualcuno lì ad ascoltarli. Pensavo non ci fosse nessuno, dirà con la sua flebile voce. In effetti il colpo d’occhio non è quello delle grandi occasioni; non più di 2-300 spettatori tutto sommato pazienti e anche soddisfatti fino a quel momento per quello che comunque si prospettava come uno degli eventi dell’estate pescarese; che ha seriamente rischiato di essere annullato proprio a causa della scarsa prevendita, come ci ha confidato un ragazzo dello staff tecnico (che lasceremo anonimo per ovvie ragioni).

Stiamo parlando dell’esibizione dal vivo dello splendido Misery Is A Butterfly, disco uscito nel 2004 che ha segnato un punto di svolta nel percorso musicale del trio composto dalla già citata Makino e dai fratelli Simone e Amedeo Pace, qui riproposto in accompagnamento con un quartetto d’archi – trasformatosi in quintetto grazie alla presenza di una seconda viola – sotto la direzione di Eyvind Kang, già presente durante la registrazione del disco.

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Un concerto che purtroppo, per quanto ci riguarda, ha rappresentato un’occasione persa: asettico, incapace di generare emozioni forti, condizionato anche da un set luci non all’altezza che, oltre a mettere a dura prova la retina di Kazu Makino (la quale, ad un certo punto, ha proprio chiesto di spegnere un faro che le puntava dritto in faccia), non ha contribuito a creare quel mood sognante ed estatico di cui i brani dell’album sono invece pregni. Disco non riproposto, tra l’altro, in versione integrale, avendo sacrificato Maddening Cloud ed Equus dalla scaletta originale.

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Alchimia poco percepita anche tra i membri della band, apparsi ognuno un po’ chiuso nei suoi pensieri, fino al bis dove sono stati eseguiti due brani tratti da Barragán – ultimo lavoro da studio pubblicato a fine 2014 – con amnesia della Makino sull’attacco di Defeatist Anthem (Harry And I).

Insomma sicuramente una serata tutt’altro che indimenticabile e che, considerato il valore assoluto dell’album e delle bellissime sensazioni che ci trasmise al primo e ai ripetuti ascolti di oltre dieci anni fa, amplifica ancora di più il senso d’amaro nella nostra bocca.

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