Bill Callahan
Sometimes I Wish We Were An Eagle
(Cd, Drag City)
avant-rock
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Nel 1990 si faceva chiamare Smog, era un bel ventiduenne dallo sguardo inquieto ed era considerato una delle voci più autorevoli di un genere che all’epoca spopolava: il lo-fi, ovvero suoni sporchi registrati a bassissima fedeltà. Poi, nel 2007, Smog decise che era tempo di cambiare. Aveva già sviscerato tutte le possibilità che il lo-fi offriva, così si gettò a capofitto in una musica completamente diversa, in cui le sonorità grezze lasciavano il posto a raffinati arrangiamenti. Per meglio sottolineare il cambiamento, decise di proporsi con un altro nome, il suo vero nome: Bill Callahan.
Sometimes I Wish We Were An Eagle è il secondo album di Bill Callahan (sotto il nome Smog ne sono usciti altri undici). Nelle nove tracce traspare l’evoluzione artistica del musicista: se durante il periodo lo-fi si limitava a fare dei bozzetti musicali con pochi suoni rapidi e decisi, ora realizza dei veri e propri affreschi dai colori corposi, pieni di sfumature e di dettagli.
Ma del proprio passato Callahan non rinnega tutto. Mantiene intatta una vena di cupo intimismo e il timbro vocale, da crooner sofferente ma mai maledetto: la sua voce è roca e senza virtuosismi, decisamente confidenziale. Con questa base di partenza, unita ed eleganti arrangiamenti dominati da una sezione d’archi importante ma sempre controllata, Bill Callahan realizza un album pacato ed ordinato, dal quale però emerge un costante senso di inquietudine.
Il difficile equilibrio tra rassicurazione ed angoscia è l’impostazione di quasi tutti i brani dell’album. My Friend si apre con un sereno giro di chitarra, per poi sfociare in un minaccioso muro di suono costruito con le note angeliche e squillanti dei violini e i suoni diabolici e tetri dei violoncelli, i quali lasciano aperto uno spiraglio di luce solo nel ritornello. All Thoughts Are Prey To Some Beast è introdotto da placide note sospese, ma ben presto subentra un penetrante senso di angoscia ottenuto con sciabordate di chitarra, violini taglienti come pioggia e batteria dura e improvvisa come un fulmine. Un cielo privo di nubi che poi si trasforma in tempesta.
Un inquietante intreccio d’archi piegato a un motivetto vivace, quasi ballabile, rende Eid Ma Clack Shaw una delle canzoni più belle dell’album. Ha un sapore blues grazie al piano sostenuto da stilettate d’archi, che riescono a realizzare un inconsueto groove noir. La vera gemma del disco è però The Wind And The Dove: incipit agrodolce, melodia velata da oscuri archi, e infine un ritornello candido e semplice, la cui positività giunge inaspettata dopo il decadente affastellarsi di sonorità plumbee.
Un disco giocato sull’ambiguità e sul cambiamento: un violino che prima è rassicurante improvvisamente può fare paura. Un artista dedito a giocare con suoni scarni e sporchi può poi diventare un amante delle orchestrazioni dettagliate. Un quadro dai colori scuri e angosciosi può, infine, essere squarciato da un’insperata pennellata di azzurro.
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