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Arctic Monkeys: Humbug

Dopo due anni di lavoro in studio, cresciuti all'anagrafe e musicalmente, gli Arctic Monkeys propongono sul mercato il loro ultimo lavoro, che li allontana dall'indie e li spinge verso altre mete musicali. Non chiamateli più indie rock band o garage band. Questi sono gli Arctic Monkeys

Arctic Monkeys

Humbug

(Cd, Domino Records)

alternative rock, indie rock

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arctic_monkeys_humburgQuando mi hanno detto che avrei recensito l’ultimo album degli Arctic Monkeys, pensavo di sapere a cosa andavo incontro: indie-rock inglese, tempi dritti e melodie vocali alte, insomma un album degli Arctic Monkeys, invece ho fatto una gradita scoperta.

L’album in questione, Humbug, si discosta totalmente dalla strada che il gruppo di Sheffield aveva scelto per lanciarsi nel 2006.

L’indie non è sparito del tutto ma ha lasciato una fetta importante del sound ad un rock più duro, condito con forti distorsioni, quasi stoner rock, e parti strumentali psichedeliche. Probabilmente merito di Josh Homme (Queens Of The Stone Age), che ha in parte prodotto l’album e che ha anche ospitato le scimmiette nei suoi studi in mezzo al deserto.

Il disco si apre come non te lo aspetti: My Propeller indica la strada presa dal gruppo. La voce di Alex Turner è maturata, scura e fonda come nel migliore Mark Lenegan, le chitarre di Jamie Cook sono arrabbiate ed effettate come il basso di Nick O’Malley e l’unico strumento che ricorda, a tratti, il tipico indie inglese è la batteria di Matt Helders.

Un chiaro riferimento agli anni ’60 è presente con Crying Lighting, scelto fra gli altri come primo singolo che anticiperà l’uscita dell’album, che con quel tempo rallentato alla Beach Boys e la chitarra tremolante rispolvera uno stile intramontabile, ma condito con una grinta distintiva.

Dangerous Animals ci apre di nuovo le porte al nuovo “Monkeys’s Style”, un rock, duro, che definire rabbioso è poco. Una traccia secca, dal sound lo-fi, quanto la numero cinque, Potion Approaching

L’album quindi si divide in più parti, meticolosamente intrecciate fra loro.

Una prima che descrive il nuovo mood della band: un suono più pieno, reef incisivi con chitarre distorte e tempi più cadenzati e pesanti.

La seconda è un ritorno alle origini del loro amato indie anche in elettro-acustico, come proposto con la dolcissima Cornerstone.

La terza si spinge, invece, verso un rock più elaborato, di base indie ma psichedelico, pieno di riverberi ed echi, come in Fire and The Thud e Dance Little Liar.

La miscellanea ottenuta è un disco di ottima fattura, maturo al punto tale da potersi definire il primo album dei “nuovi” Arctic Monkeys.

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Pierluigi Falotico
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