Alberto Bianco
Certo Che Sto Bene
(Virgin, Universal)
indie-pop, it-pop, electro-pop, folk acustico
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Chissà quante volte abbiamo chiesto “come stai” per circostanza e quante invece per sincero interesse.
A distanza di due anni da Canzoni Che Durano Solo Un Momento e a dodici dall’esordio con Nostalgina, il cantautore torinese Alberto Bianco manda alle stampe il suo nuovo disco (sesto in carriera) intitolato Certo Che Sto Bene, edito per Virgin/Universal e anticipato dall’uscita dell’omonimo singolo.
Con alle spalle collaborazioni eccellenti con Max Gazzè, Giorgia e Levante, e l’attuale sodalizio artistico con Niccolò Fabi (suona il basso con lui), Alberto Bianco, a quasi quarant’anni, continua a dar seguito alla sua impronta stilistica e ad alimentare quella formula compositiva – fatta di melodie a presa rapida e ritornelli che si imprimono immediatamente nella memoria – che ha contribuito a costruire la strada per un nuovo cantautorato pop italiano, quello che oggi viene identificato nel circuito mainstream con l’etichetta “it-pop”.
Registrato in una settimana sull’isola di Formentera e prodotto da Taketo Gohara, partecipano al progetto Dente e Margherita Vicario (che canta nel brano Il Tempo Del Mare), mentre Federico Dragogna è la voce in Fuochi D’Artificio (brano dal sound internazionale, sulla falsariga dei Coldplay), di cui firma il testo.
Nonostante una grana leggermente acerba in alcuni passaggi, Certo Che Sto Bene rappresenta per Alberto Bianco il raggiungimento di una maturità scritturale che è conseguenza diretta sia di un lavoro di crescita personale, sia di una maggiore consapevolezza del proprio bagaglio artistico. Una rinnovata consapevolezza da cui il musicista piemontese, dosando intimità, introspezione e un pizzico di cinismo misto a nostalgia e positiva ironia, riparte per mostrare e condividere le emozioni che circondano il suo perimetro sentimentale e le esperienze accumulate nel tempo.
Canzoni che sembrano provenire dalla cassa di una vecchia radio, da un’altra epoca, come le carezzevoli note della nenia Fatta Bella, oppure la dedica affettuosa alla figlia ne Il Momento Che Preferisco (“ed ecco qua cos’è la felicità”). C’è spazio anche per il folk spensierato e fischiettato della title-track, le atmosfere oniriche e riverberate di Fuochi D’Artificio, la nostalgia nel blues-reggae di Cartolina, l’incertezza tra sogno e realtà di Paura Padana, le istantanee di un tempo che non finirà mai ne Le Abitudini Della Domenica, l’amara metafora di come può essere triste la vita dietro le maschere che indossiamo in Rido Seriamente, la dolce malinconia del sax e del flauto a mitigare sentimenti contrastanti in Maremoto e il dono della condivisione ne Il Tempo Del Mare.
Veicolando una malinconica leggerezza e una sensibilità con cui è facile immedesimarsi e fare propri certi dilemmi esistenziali, Alberto Bianco, nelle dieci tracce di Certo Che Sto Bene, racconta del tempo che scorre lungo le ambizioni estreme che la società ci impone, di quei percorsi complicati e frenetici che il più delle volte ci portano a sbagliare (“quanto è facile sbagliare se non fai quello che ti piace […] quanto è facile sbagliare quando il mondo è così feroce”), di quelle situazioni in cui siamo convinti di stare bene ma nelle quali, invece, avvertiamo una specie di fastidio latente, una sofferenza, come la sensazione di una spina che punge sottopelle, come la libertà che fa paura, come il peso di sentirsi nessuno tra tanti.
Certo, non è sempre facile fare ciò che ci piace, nel modo in cui ci piace, tutt’altro, così com’è vero che spesso l’ambizione è un’autostrada e noi siamo soltanto dei cani solitari che corrono su vecchi tapis roulant nella percezione distorta di un eterno presente, ma la vera sfida con se stessi è riuscire a guardare il lato positivo in ogni cosa, cercando di catturare quel punto di raccordo tra visioni comuni e diversità, per non speculare su sogni impossibili da usare come giustificazione per qualsiasi obiettivo non raggiunto (“cerchi un sogno che poi non si avveri, per rimanere quella che eri ieri”).
È dunque questa la differente prospettiva, la nuova presa di coscienza con cui Alberto Bianco, a suo modo, invita a (ri)mettersi in gioco e a non smettere di giocare, a rallentare certe frenesie tossiche dell’attualità, a rimuovere con cautela determinate spine, ad accettare con maggior serenità l’ineluttabilità dei cambiamenti e l’inevitabile fallibilità dell’essere umano, a riconsiderare gli errori come strumento creativo e costruttivo (“tutti gli sbagli che mi ha dato la vita, che l’han fatta bella”), a proteggere i rapporti affettivi come unici investimenti per il futuro e soprattutto a non farci sopraffare dalle difficoltà, che quelle non mancano affatto, scoprendo che si può imparare a navigare anche tra le onde impetuose delle emozioni, restituendo il giusto valore all’immaginazione e a quelle cicatrici che non abbiamo potuto nascondere (Ribery insegna), ma che, dopotutto, ci hanno resi più forti.
Stare bene è ancora possibile, ma a condizione che non si prescinda dalla conoscenza di se stessi e da quel flusso perpetuo di scelte che portano ad altre scelte. Serve stringere i pugni, serve il coraggio di saper dare il giusto tempo alle cose – quelle semplici che ci dovrebbero bastare – ricercando le espressioni più autentiche anziché uniformarsi, e riuscire a convivere con le nostre fragilità e con il fatto che la vita è un vento su cui non potremo mai avere il pieno controllo.
Così, annaspiamo e poi riprendiamo a remare coi nostri pedalò, proviamo a prendere a calci il mondo che c’era prima, ma farlo insieme è ciò che conta davvero. Che è più facile in due rimanere svegli. E allora fingiamo di credere ancora nel futuro (che sarebbe più opportuno chiamare “avvenire”), di avere un cuore leggero, di stare bene da soli e di avere un’altra volta la forza di essere sicuri dei nostri pensieri, delle nostre scelte, delle nostre azioni. Ma in fondo è così che vanno le cose.
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