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Afterhours: recensione concerto Collegno, 15 luglio 2016

A circa un mese dall’uscita di uno degli album più controversi della loro carriera, gli Afterhours tornano a calcare i palchi italiani e lo fanno con la migliore formazione di sempre. Incendiando il fresco clima torinese

Afterhours

Flowers Festival, Collegno (TO), 15 luglio 2016

live report

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recensione-concerto-afterhours

Gli ultimi anni della storia degli Afterhours sono stati parecchio travagliati: l’abbandono di Ciccarelli e Prette (quest’ultimo membro storico della band milanese) ha costretto Agnelli a ricorrere a due sostituti d’eccellenza per completare il tour nei teatri. Da quel momento, gli After hanno smesso di essere un gruppo nel senso più tradizionale del termine e sono diventati un collettivo. Rondanini e Pilia hanno partecipato attivamente alle sessioni di produzione e registrazione di Folfiri o Folfox, di sicuro l’album più controverso e criticato di sempre. Se in genere la dimensione live è la cartina di tornasole per testare gli umori del pubblico, questo tour assume ancora più valore, vista la spaccatura che si è creata tra i fans poco prima del suo debutto.

Il Flowers Festival di Collegno, che occupa l’area del Parco della Certosa, è ormai una realtà consolidata. Negli anni ha cambiato nome e identità, ma è sempre stato fonte di concerti prestigiosi e centro nevralgico musicale dell’estate torinese. Il live show degli Afterhours prevede un opening act di tutto rispetto, in perfetta sintonia con il mood della serata: alle 21.00 in punto salgono sul palco Emidio Clementi e Marco Caldera, rispettivamente voce e tecnico del suono dei Massimo Volume, con il loro progetto Sorge. Un pianoforte, uno schermo che proietta una serie di immagini e un tappeto digitale che sostiene le parole e la voce profonda e riconoscibilissima di Mimì. Tra i pezzi proposti, anche un inedito, nato dopo l’uscita di La guerra di domani. Inutile dire che la loro performance convince anche chi era a digiuno di questa collaborazione, perché è impossibile rimanere impassibili di fronte ai testi di Clementi e alle storie a cui è capace di dare vita, nonché al modo pressoché perfetto in cui voce e musica si compenetrano.

I Sorge si congedano dopo circa 45 minuti con un ultimo ricordo di Emidio, quando nel 2008 il Traffic festival (il cui direttore artistico quell’anno era proprio Agnelli) faceva da sfondo alla reunion dei Massimo Volume (con Pilia per la prima volta alla chitarra) e vedeva le due formazioni condividere il palco e la scena. Un’attestazione di stima e affetto reciproci, che troverà riscontro in Manuel, il quale annunciando Bye Bye Bombay ricorderà quel viaggio in India di quindici anni prima e un’amicizia che è anche un sodalizio artistico.

Mezz’ora dopo, verso le 22.15, Manuel Agnelli esce sul palco da solo con la sua chitarra e attacca Grande, brano di apertura di Folfiri o Folfox, un album che parla di morte, malattia, ma anche di rinascita e cambiamento. Un album che è forse quello più personale, dove la tecnica del ‘cut & paste’ viene messa da parte a favore di liriche più personali e intime. A mano a mano che la canzone prende corpo, escono sul palco anche Roberto dell’Era, Rodrigo d’Erasmo, Xabier Iriondo, Stefano Pilia e Fabio Rondanini. L’inizio del concerto è dedicato ai pezzi nuovi: Ti cambia il sapore, Il mio popolo si fa (che sa già di inno generazionale) e il singolo più nelle corde della produzione pop della band, Non voglio ritrovare il tuo nome.

Messo da parte Hai paura del buio?, ampiamente celebrato durante l’omonimo tour datato 2014, da cui ci viene concessa solo Male di miele, la scaletta alterna per lo più estratti da Ballate per piccole iene e Quello che non c’è, relegando Padania al ruolo di semplice comparsa (si salveranno solo la title track e Costruire per distruggere, unici baluardi di uno dei lavori minori del collettivo milanese). La vedova bianca è ipnotica al confine col surreale, con Pilia che esegue l’intro di chitarra mentre Agnelli e Iriondo invitano il pubblico a scandire il tempo; Ballata per la mia piccola iena e La sottile linea bianca sono ormai degli habitué della setlist, e Il sangue di Giuda è una piacevolissima riscoperta; Varanasi baby e Bungee jumping danno libero sfogo al calore e al furore del pubblico e a quel mix di emozioni che solo una performance come quella di stasera sa smuovere.

Lo show alterna momenti di forte impatto emotivo, come L’odore della giacca di mio padre, con Agnelli pianoforte e voce ad altri di grande carica rock, come Cetuximab. Sono proprio questi ultimi a far risaltare in modo ancora più evidente quanto il nuovo assetto della band giovi non solo alla produzione in studio. L’arrivo in scuderia di un chitarrista talentuoso e virtuoso come Stefano Pilia rafforza il muro di chitarre che torna a essere uno dei punti di forza degli Afterhours, mentre il potenziamento della sezione ritmica ad opera di Fabio Rondanini (Calibro 35, per chi non conoscesse solo la punta dell’iceberg della sua lunga carriera) si riflette anche su un cantato più armonioso e meno sincopato.

Se io fossi il giudice chiude il live e lascia spazio alla classica uscita di scena, seguita di li a poco dai primi encore: La verità che ricordavo è uno di quei momenti in cui al pubblico – e dal pubblico – arriva una botta emotiva niente male; Riprendere Berlino, dal (meglio così) dimenticato I milanesi ammazzano il sabato, con le coreografie di danza di Stefano e Xabier, un’inedita Strategie, che non trovava posto in scaletta da diverso tempo, “[…] una canzone scritta vent’anni fa sul pop. Allora non sapevo quanto fosse veraPop (una canzone pop), anche questa una perla rara voce e chitarra che è sempre un piacere risentire, e infine Non è per sempre, forse il più universale biglietto da visita del gruppo.

Alla seconda uscita, il pubblico rumoreggia; sono tante le canzoni che vorremmo ancora sentire, ma due in particolare – proprio da quell’album capolavoro citato in precedenza – mancano all’appello e la loro assenza si fa sentire. Agnelli e soci ritornano sul palco per Quello che non c’è (alla quale, per ragioni di tempo, viene tagliata la coda di chitarra) e Bye Bye Bombay, dedicata al famoso Mimì citato nel testo, che immancabilmente ci fa urlare a squarciagola “Io non tremo, è solo un po’ di me che se ne va”.

Quando si accendono le luci sul parterre del Flowers Festival, quelli che mi circondano sono volti soddisfatti. Gli Afterhours saranno anche un collettivo, ma più unito di quanto si potesse prospettare di fronte a individualità così forti; si divertono ancora sul palco, cosa non così scontata, soprattutto dopo tanti anni di carriera, ma soprattutto sono tornati a pieno titolo a essere uno dei gruppi di riferimento della scena indie italiana. Potrà non piacervi il loro ultimo disco (troppo sperimentale, senza melodia, ecc. ecc.), potrete storcere il naso all’idea che Agnelli sia il nuovo giudice di X factor (e come darvi torto?), ma è innegabile che siano uno dei pochi gruppi in circolazione da oltre vent’anni ad avere ancora voglia di sperimentare e di cercare nuove strade per la propria vena creativa, e che non ha paura di metterci la faccia o di perdere seguito. Di sicuro questo nuovo orientamento sta dando i suoi frutti nella dimensione live, dove sono tornati a darci quel pugno nello stomaco che credevamo ormai un ricordo degli anni ’90.

Setlist:

  • Grande
  • Ti cambia il sapore
  • Il mio popolo si fa
  • Non voglio ritrovare il tuo nome
  • Ballata per la mia piccola iena
  • Varanasi Baby
  • La vedova bianca
  • Padania
  • Né pani né pesci
  • Male di miele
  • Cetuximab
  • L’odore della giacca di mio padre
  • Il sangue di Giuda
  • Bungee Jumping
  • La sottile linea bianca
  • Costruire per distruggere
  • Fra i non viventi vivremo noi
  • Se io fossi il giudice

Encore:

  • La verità che ricordavo
  • Riprendere Berlino
  • Strategie
  • Pop (una canzone pop)
  • Non è per sempre

Encore 2:

  • Quello che non c’è
  • Bye Bye Bombay

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Simona Fusetta
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