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Rainbow Bridge: recensione di Drive

Gli italianissimi Rainbow Bridge sembra abbiano fatto un patto con il passato, soprattutto con quelli che furono gli anni '70.

Rainbow Bridge

Drive

rock, stoner, psych

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Gli italianissimi Rainbow Bridge sembra abbiano fatto un patto con il passato, soprattutto con quelli che furono gli anni ’70.

La loro musica è sostanzialmente inconfondibile e paga dazio ai nomi importanti della storia del rock come Blue Cheer e Black Sabbath. I

n Drive abbiamo, ancora una volta, tutte le loro peculiarità. Jam lunghe, chitarre piene di fuzz, canzoni mai banali e melodie molto trasversali. Il tutto si dipana in oltre un’ora di musica.

La prima parte vede il cantato come elemento interessante che rende il tutto maggiormente fruibile anche da chi si annoia ad ascoltare solo parti suonate. Ad ogni modo, visto che al proprio DNA si è sempre fedeli nei secoli dei secoli, il gruppo, nella seconda parte del lavoro, decide di spostare l’attenzione sulle parti solo strumentali.

Ed allora vengono in mente quelle che sono le desert sessions tanto care a Brant Bjork o Josh Homme. Sembra quasi di essere trasportati nel deserto dell’Arizona con quei suoni caldi e potenti che tanti fan hanno conquistato in giro per il mondo.

L’ultima tranche vede, infine, la presenza della lunghissima suite Tears Never Here che ha il pregio di essere varia, cantata e piena di spunti interessanti. Chiude questo viaggio nel passato la validissima Coming Out che conferma tutto quello che di buono si dice da tempo sui Rainbow Bridge.

 

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Francesco Brunale
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