Verdena
Volevo Magia
(Capital Records)
alt-rock cantautorale, hardcore punk melodico, fuzz, psych blues elettroacustico, rock & blues
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Oltre la promessa e l’aspettativa, c’è ancora quella cosa chiamata magia? Che poi cos’è la magia? Nient’altro che un trucco, un’illusione, una capillare messinscena: come la nostalgia.
A distanza di sette anni dal doppio volume Endkadenz, e in mezzo una pandemia, una guerra, la realizzazione della colonna sonora del film Anima Latina dei fratelli D’Innocenzo e altri progetti paralleli (relativi sia alla sfera artistica, vedi Animatronic e I Hate My Village, sia a quella privata, famiglia, figli, ecc.), i Verdena rientrano in carreggiata mandando alle stampe il loro settimo album intitolato Volevo Magia, edito per Capital Records e anticipato dall’uscita del singolo Chaise Longue.
Così, tra vecchi sogni ormai svaniti, le problematiche della vita e l’agrodolce percezione che la magia d’un tempo si è progressivamente trasformata in qualcos’altro, a discapito di creatività e fantasia, i Verdena – Alberto Ferrari alla voce e chitarra, Luca Ferrari alla batteria e percussioni, Roberta Sommarelli al basso – sono andati alla ricerca di una nuova ispirazione, di un nuovo confine introspettivo, oltre i mille forse del presente, il peso dell’esperienza e la tentazione di cedere alle dolci lusinghe dell’ira, cercando di soffiare ancora nel cannello dell’estro e assaggiare il mondo da una differente prospettiva, pur conservando quel consueto ermetismo testuale (a cura di Alberto Ferrari), che si perde tra le imprevedibili e malinconiche righe tracciate dal tempo, assieme a quella collaudata spontaneità home-made che li ha contraddistinti nella loro carriera pluriventennale.
Caratterizzato da una lunga e difficile gestazione, Volevo Magia, in pochi giorni di pubblica diffusione, ha – in parte – polarizzato pareri e umori all’interno della vecchia fanbase del tridente orobico: se da un lato l’ascolto del nuovo materiale ha fatto registrare un condiviso sentimento di febbrile eccitazione e consenso, dall’altro c’è una minoranza che, invece, non ha affatto nascosto la sua delusione, per un lavoro definito più che altro “difensivista” e dal sound troppo aderente alle loro precedenti produzioni discografiche.
Insomma, cambiano i personaggi ma i refrain son sempre gli stessi: “Non sono più i Verdena d’una volta”, “Non sono più i paladini dell’alternative rock tricolore”, “Le nuove canzoni sembrano b-side di Endkadenz e Wow”. Diciamo che, oggigiorno, è facile inciampare nel bias della lunga attesa, nella retorica del fattore nostalgia, dei vecchi retaggi, del non adeguarsi mai all’idea del cambiamento.
Eppure, al netto di qualsiasi sensazionalismo mediatico, va detto che i Verdena – eroi involontari dell’orgoglio rock tricolore – sono rimasti fedeli al loro perimetro cantautorale e autoreferenziale, al loro mantra compositivo e alla voglia di assecondare la propria passione, mostrando anche la capacità di saper introdurre una misurata dose di leggerezza in più rispetto al passato (Chaise Longue), ma con il medesimo disagio misto a ironica furbetteria che sin dagli esordi ne ha identificato immagine e outfit: tutt’oggi somigliano a quei tipi anonimi di provincia che hanno appena finito il turno di lavoro nell’azienda Melinda a caricare cassoni di mele.
In controtendenza con le logiche mainstream del mercato musicale e nella scelta antiestetica di comprendere la contemporaneità guardandosi indietro, il trio bergamasco continua a corteggiare fantasie ancora vivide, a concedersi deviazioni e ad alimentare il suo processo di evoluzione scritturale, perennemente in equilibrio nel pentagramma dei contrasti, in apnea tra liriche dai codici indecifrabili, dilatazioni oniriche, luccicanti stratificazioni e compressioni marziali e abrasive.
Volevo Magia è – di fatto – un triplo tuffo carpiato all’indietro, in quella meravigliosa bolla degli anni ’90 che puzza ancora di Smashing Pumpkins, Soundgarden e Radiohead (X Sempre Assente), a cui si mescolano contaminazioni retrò-seventies e certo percussionismo bongheggiante e tribaleggiante: si va dal fascino magnetico e poliedrico di quel cantautorato rock italiano ascrivibile ai vari Battisti, Ivan Graziani e Bluvertigo (Chaise Longue) alle impetuose cavalcate heavy fuzz del demone zeppeliniano (Crystal Ball), dal garage blues beatlesiano di rimando lennoniano (Paul e Linda) alle scosse telluriche e granitiche di Pascolare e Paladini, dai riff supersonici di estrazione hardcore punk (Volevo Magia) alle atmosfere disco funk e alle ritmiche stop & go di Sino A Notte (D.I.), fino a smaltire qualsiasi velleità di forma e sostanza nella dolce malinconia agreste di pennellate kingcrimsoniane (Sui Ghiacciai, Nei Rami), conferendo una profondità di campo che si dissolve in maniera poetica, astratta, soffusa e inafferrabile.
Gli anni ’90 si erano chiusi con l’album d’esordio dei Verdena e la crescita esponenziale, in fatto di popolarità, di generi musicali alternativi catalogati tutti sotto l’etichetta concettuale di “indie-qualcosa”. Solo in seguito abbiamo scoperto che, sotto sotto, quel binomio rappresentava solamente un insieme di castelli per aria.
Dunque, la vita è un sogno, o i sogni aiutano a vivere meglio? Volevo Magia è una seduta psicanalitica su quell’invisibile interconnessione che esiste tra sogno e realtà, mentre il tempo – sfuggente come polvere di vento – scivola via tra le dita, come infiniti granelli di sabbia, come un’astuta bugia. D’altronde è questa la funzione del sogno: mentire per anestetizzare le complicanze della vita reale. Come mezzo per navigare attraverso le nostre faticose odissee quotidiane.
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