Chiara Vidonis
La Fame
(FioriRari)
cantautorato rock, alt-rock, synth rock
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A distanza di ben sette anni dall’esordio discografico con Tutto il Resto Non So Dove e con all’attivo anni di concerti e diversi premi e riconoscimenti, la cantautrice triestina Chiara Vidonis manda alle stampe il suo sophomore album intitolato La Fame, edito per FioriRari e anticipato dall’uscita dei singoli Lontano Da Me e Quello Che Ho Nella Testa.
In questo secondo step autorale – prodotto da Karim Qqru dei The Zen Circus e raccolto in otto tracce inedite – Chiara Vidonis, conservando il proprio trademark identitario, ma mostrando al contempo il desiderio di voler smussare e mitigare certi angoli impetuosi della prima release, riesce ad esprimere e trasmettere una rinnovata maturità compositiva – la cosiddetta prova del nove – attraverso un concept elaborato a fuoco lento, che ruota intorno a tutto ciò che simboleggia “la fame”, nutrendosi di quell’istinto che riflette la sfera dei nostri bisogni primordiali ed essenziali, da quelli più bassi e meschini a quelli che invece ci tengono in vita, consentendoci di andare avanti e muoverci come esseri umani.
Focalizzandosi sui conflittuali crocevia delle scelte esistenziali e sulla presa di coscienza di quelle che sono le insanabili debolezze dell’essere umano, Chiara Vidonis mette a disposizione la propria intimità, scoprendone il lato più famelico e vulnerabile, contestualizzando la precarietà dei rapporti interpersonali che contraddistingue la contemporaneità, quando in maniera carezzevole, poetica e malinconica – accompagnata soltanto da un sottofondo di voce, piano e violoncello (La Fame, Era Meglio Quando Non Capivo Niente) – quando con maggior temperamento timbrico (Quello Che Ho Nella Testa, Talento Naturale, Come I Sassi), coinvolgendo e catalizzando contaminazioni sonore di natura eterogenea.
Diversi background stilistici e tessiture melodiche si amalgamano e si intrecciano all’interno di La Fame, rievocando quella freschezza retrò che rimanda all’alternative rock d’ispirazione anglofona, le linee classiche della forma-canzone e la testualità del cantautorato nazionalpopolare, servendosi di una lettura più elettronica, a conferire maggiore profondità atmosferica all’impianto tematico, e della propria sensibilità autobiografica, quale raccordo umorale tra i vari episodi del disco.
Un intimismo di fondo che, in alcuni passaggi dell’album, si defila per calarsi nel cinico realismo del mondo esteriore; di una società contraddistinta da sovrastrutture sociali costruite su arcaiche convenzioni e superstizioni, sull’inoculazione di sensi di colpa che pesano come sassi, se non addirittura macigni, e soprattutto sulla proiezione di noi stessi nelle dinamiche edoniste delle nuove tecnologie virtuali (L’inizio), sempre più sottomesse alle perversioni algoritmiche dei social network e al baratto del consenso altrui.
Così, ci ritroviamo ansimanti a rincorrere un appagamento effimero, omeopatico e di facciata che, quasi sempre, nasconde frustrazione, solitudine e bassa autostima, insieme a quel desiderio patologico di voler apparire diversi da ciò che realmente siamo. Dovremmo ripartire dall’accettazione di noi stessi, (ri)prendendoci ogni tanto il nostro tempo per osservarci da fuori, quale condizione fondamentale per sopportare – quantomeno – le delusioni dovute alla consapevolezza, andando in controtendenza rispetto alle bulimiche iperconnessioni dell’attualità e alle contraddizioni che fanno parte del nostro vissuto quotidiano.
Concedersi, dunque, riflessioni fatte di istanti – “scoprendosi come acqua nuova a piccoli sorsi, come carne fresca a piccoli morsi” – senza doversi per forza guardare indietro e specchiarsi nei tanti “se” che affollano i pensieri, ma aspettando semplicemente che quella fame cresca, in maniera spontanea e naturale, anche a costo di dover scegliere una direzione diversa, anche quando si è costretti a cambiare prospettiva.
Allora potremmo accorgerci che un sogno non ci rappresenta più (Lontano Da Me), il ché non significa rinnegare un percorso, o vivere gli imprevisti come fallimenti, ma soltanto che possiamo essere individui fallibili, e che non dobbiamo essere per forza vincenti come ci vorrebbe la società odierna.
Un nuovo livello di consapevolezza e conoscenza da parte di Chiara Vidonis, più costruttivo e aderente alle deviazioni della vita, alle rimodulazioni di certe esigenze personali – che profuma quasi di ribellione terapeutica – in cui si avverte la voglia di sopravvivere e quel talento nel rigenerarsi nonostante le inevitabili cadute, la disillusione e i vuoti di certe mancanze. Sappiamo, altresì, quanto sia difficile, e destabilizzante, assecondare la non linearità dei cambiamenti, delle imperfezioni e l’ignoto che si cela dietro le curve di certi orizzonti e certi confini emozionali.
D’altronde, col rischio di sfiorare nostalgiche derive di retorica popolare, viene da chiedersi se “era meglio quando non capivamo niente”; quando l’aria era impregnata di speranza e futuro, quando vivevamo di una calma apparente, di spensieratezza e di quel poco che conoscevamo, all’interno di una bolla protettiva, in una sorta di incantesimo, quando eravamo ancora gli acerbi germogli di questo presente così malandato, quando ci accontentavamo dei contorni delle cose, della superficialità, ma non ci mancava niente. A parte il prezzo del futuro, come cantava Claudio Baglioni.
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