The Hellacopters
Eyes Of Oblivion
(Nuclear Blast)
hard rock, garage, blues, AOR, rock’n’roll, glam rock, country folk, hard’n’roll
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Non è stato un pesce d’aprile. La reunion dei The Hellacopters si è finalmente concretizzata. Il ritorno della hard rock band svedese si è materializzato con la pubblicazione del nuovo album Eyes Of Oblivion, anticipato dall’uscita del singolo Reap A Hurricane e prodotto per la prima volta dall’etichetta tedesca Nuclear Blast.
Dopo una lunga pausa di tredici anni – interrotta da un come-back che nel 2016 li ha visti esibirsi in alcuni live per il ventesimo anniversario del loro disco d’esordio Supershitty To The Max – il gruppo capitanato da Nicke Andersson (frontman carismatico ed ex batterista della death metal band Entombed, conosciuto anche con lo pseudonimo di Nicke Royale), insieme alla rentrée del chitarrista Dregen (co-fondatore dei Backyard Babies), continua ad alimentare quel discorso lasciato in sospeso nel 2008 con Head Off, rievocando quella retrospettiva calligrafica ascrivibile al periodo d’oro dell’hard rock & blues, aderente a quel glorioso passato che va dagli anni ’70 agli anni ’80.
Stoicamente aggrappati a quei territori anglofoni ricchi di suoni rock’n’roll, e divergendo dalle mode discografiche del momento, i The Hellacopters, rinvigoriti nello spirito, s’ispirano esplicitamente al virtuosismo di nomi illustri quali MC5, Creedence Clearwater Revival, Trapeze, Thin Lizzy, New York Dolls, The Quireboys, Rose Tattoo, Scorpions, e ai conterranei Turbonegro e Hanoi Rocks.
Spaziando tra riff punk-rock graffianti e pirotecnici (Reap A Hurricane, Try Me Tonight, Eyes Of Oblivion), refrain catchy a presa rapida, contaminazioni folk country garage alla The Quireboys (Tin Foil Soldier), solismi pregni di effetti wah-wah, ritmiche melodiche di sponda AOR (Positively Not Knowing, Can It Wait, Beguiled), vocalità rauche alla John Fogerty e Rod Stewart e ammiccanti pose da rockstar, le dieci tracce di Eyes Of Oblivion scorrono prepotentemente all’interno di quei solchi vintage, attraverso un revivalismo hard’n’roll grezzo, coinvolgente, frizzante e dal feeling decadente.
Un lungo periodo d’assenza che non ha minimamente intaccato né il trademark sonoro né la voglia di fare rock da parte dei “nice boys di Stoccolma”; alfieri di un modus operandi anacronistico che, da un lato, si tuffa nell’immaginario estetico glam di quelle band trasgressive che negli anni ’70 calpestavano i sudici marciapiedi newyorkesi e negli anni ’80 affollavano le strade losangeline del Sunset Strip, e dall’altro tengono alto il vessillo del punk norreno (e non solo), raccogliendo il consenso di quei rocker attempati e nostalgici che, ormai da tempo, hanno sposato lo sloganesimo simbolico della resilienza rock.
Insomma, mentre tutti si assembrano, uno sopra l’altro, per decretare la morte del rock – perché ogni tanto qualcuno crede di essere figo semplicemente screditando il genere rock – gli scandinavi The Hellacopters, con la solita energia e adrenalina, si caricano sulle spalle la pesante eredità degli antenati blues, sfoggiando una malinconica e struggente ballata blues, So Sorry I Could Die, che rimanda alla sensibilità spirituale di Nina Simone e Sam Myers.
Con Eyes Of Oblivion, ottava release in carriera, i The Hellacopters tornano a far ruggire i propri motori e carburatori, mostrando una longevità stilistica fresca e dinamica, un solido affiatamento e un potenziale ancora all’altezza delle aspettative, nonostante la ruvidezza e la sciatteria stoner degli esordi siano state decisamente mitigate verso derive più radiofoniche e rappresentino, a questo punto, soltanto un lontano ricordo.
Così come Richie Finestra (il protagonista della serie tv Vinyl) cercò con ogni mezzo di salvare la sua azienda dal rischio del fallimento, allo stesso modo i The Hellacopters vogliono eludere la paura dell’oblio, di finire nel dimenticatoio, e al contempo convincere tutti che il rock non è affatto morto, pur consapevoli di come certe perdite siano, di fatto, irrecuperabili. Per dirla alla Chuck Klosterman, “c’è sempre una discrepanza tra il mondo che sembriamo ricordare e il mondo che fu”.
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