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Hapax: recensione di Exile

Exile degli Hapax è disco concettualmente elevato, ricco di intime ispirazioni e testi importanti, sublimati da un sound solido e ormai inconfondibile.

Hapax

Exile

(Swiss Dark Nights)

darkwave

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hapax-recensione-exileCi sono artisti che non deludono mai, anime illuminate capaci ogni volta di prenderti per mano e condurti con amore nel loro mondo magico fatto di riflessione e tormento. È il caso degli Hapax, nati a Napoli dalle menti creative di Michele Mozzillo (voce, basso, synth), Diego Cardone (chitarra, programming, artwork) e Alessandra Policella (testi) che tornano sul mercato con Exile, EP denso, cupo e ispiratissimo stampato dall’etichetta svizzera Swiss Dark Nights.

Il loro percorso discografico è un vero e proprio climax ascendente che parte dal debutto del 2014, Stream Of Consciousness, passa per Cave (2016) e Monade (2019) e arriva a questi sei nuovi brani concepiti durante l’era della quarantena dove si respira un grande desiderio di fuga dal lockdown e dalla claustrofobica realtà connessa.

L’isolamento, per ovvie ragioni, porta a riconsiderare sé stessi come individui, dicono gli Hapax, riflettendo sul fatto che lo scotto maggiore sia stato pagato dall’universo artistico inteso nell’accezione più ampia del termine, nel giro di poco tempo ci siamo ritrovati soli e perduti in spazi circoscritti e lontanissimi da ogni forma d’arte.

Exile è una sorta di risveglio dal doloroso torpore imposto dalla pandemia e Silvery Track, primo singolo estratto e traccia d’apertura, lo dimostra ampiamente attraverso un suono corposo e avvolgente che penetra nelle viscere in modo indelebile, una hit emozionale e per certi versi catartica, l’apertura al minuto 1.36 è da brividi, fa venir voglia di abbracciare il mondo intero con il sorriso finalmente stampato sui nostri volti ancora semi coperti dalle mascherine.

Il video di accompagnamento, affidato allo Studio Nubes, è in collaborazione con Urbex Campania, gruppo di incontro per appassionati di urban exploration nei luoghi disabitati e dimenticati dagli uomini ma ancora pulsanti delle loro vite prima che un manto di polvere si posasse ovunque.

L’albergo scelto per la location, ribattezzato Hoverlook Hotel per le similitudini con quello di Shining, si erge un luogo isolato e spettrale, un incendio ha quasi carbonizzato gli interni, dai vetri rotti si insinua sibilando il vento delle montagne, il silenzio rotto dalle voci dei corvi ed il bosco circostante sono quanto di meglio si potesse scegliere per raccontare il pathos del brano stesso: …but land has no memory, and wind just feeds on dust, on pride of erased footsteps and on dispersed clouds. On all blown away marks….

La band al completo, Michele, Diego e l’ultimo arrivato, il batterista Francesco Giuliano, si trova a suonare in queste stanze deserte, siamo polvere e polvere torneremo, nel frattempo però c’è ancora tanta strada da percorrere, bisogna solo scrollarsi di dosso il passato e guardare avanti con la voglia di rinascere, Alessandra arriva a piccoli passi e illumina a giorno ogni cosa che osserva, eterea regina in un superlativo quadretto gotico.

L’ascolto prosegue con The Unfaithful One, una simil ballad dilatata, cupa e terribilmente profonda il cui refrain è un omaggio al Riccardo II di Shakespeare: …the time is unfaithful itself to whom who abused it, i wasted time and now does time waste me, the sound that tells what hour it is, are noisy groans which strike upon my heart, which is the bell…

E’ il turno di Concrete Hives, senza dubbio la mia traccia preferita, si vaga in un loop emotivo difficilmente traducibile a parole, un tappeto armonico ai confini dello scibile umano sorretto da una sorta di sospensione onirica elevatissima, accoglie le linee vocali di un Michele in stato di grazia, sciamanico e fortemente comunicativo, inevitabile chiudere gli occhi e lasciarsi andare alla volta di terre inesplorate, destinazioni sconosciute, galassie inimmaginabili fino al risveglio in una maestosa apertura inattesa.

Con la title track torna il ritmo martellante, una hit perfetta per i dancefloor più oscuri, A different Blue prosegue nella stessa direzione affidandosi ad un groove di batteria metronomico e una meravigliosa chitarra, languida e suggestiva.

Exile chiude il sipario con l’ipnotica Dust, orazione mantrica sospesa tra arpeggi magistrali e voce baritonale dentro un suono compatto e claustrofobico, la band consegna alla storia un’altra perla rara da aggiungere ad un rosario di piccoli gioielli destinati a rimanere nel tempo.

La cultura esiste solo quando viene vissuta, dicono gli Hapax, cogliendo il senso profondo di questa nostra società che troppo spesso disdegna il mondo dell’arte e della cultura per concentrarsi magari nei cosiddetti non luoghi, quelli dove ci si incontra senza guardarsi negli occhi, dove conta l’apparenza e l’effimero, dove i rapporti umani sono ridotti all’osso, dove siamo soltanto numeri, teste non pensanti, menti ottuse, cervelli fritti.

Il messaggio è crudo, diretto, spiazzante ma molto chiaro, torneremo a civilizzarci solo quando saremo in grado di spendere tempo e denaro nella formazione intellettuale e nel relativo patrimonio di conoscenza, in caso contrario non avremo speranze.

Un disco concettualmente elevato, ricco di intime ispirazioni e testi importanti sublimati da un sound solido e ormai inconfondibile: gli Hapax sono tornati ed è impossibile non accorgersene.

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