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Zement: recensione di Rohstoff

Con questo nuovo capitolo discografico, gli Zement si proiettano alla volta di scenari sconosciuti, multiformi e retrofuturibili, pur mantenendo intatto il proprio background di matrice krautrock.

Zement

Rohstoff

(Crazy Sane Records)

krautrock, psych, EDM, jazz, instrumental

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recensione ZEMENT - RohstoffA tre anni di distanza dalla pubblicazione del precedente Klinker, i teutonici Zement mandano alle stampe il terzo album intitolato Rohstoff, edito per Crazy Sane Records e anticipato dall’uscita dei singoli Goa e Soil.

Il duo composto da Christian Büdel e Philipp Hager, proveniente da Würzburg, in assonanza con quella concezione avanguardista e filosofica di origine mitteleuropea e, di conseguenza, rivitalizzando quel sound futuristico fatto di sintetizzatori, drum machine e riconducibile al conio motorik del krautrock griffato Ash Ra Tempel, Neu!, Tangerine Dream e Kraftwerk di Autobahn, integra e plasma la propria “materia grezza” (traduzione di Rohstoff) con elementi stilistici ed extrasensoriali della psichedelia dance-trance indiana, concedendosi navigazioni jazz, percussionismi tribali, certe vibrazioni primordiali di meditazione white noise e frequenze cardiache post-rock.

Con un lavoro artigianale, da bravi amanuensi del suono, gli Zement assicurano all’ossatura ritmica di Rohstoff un suggestivo e ampio clash espressivo, tra pulsanti e distorte tessiture sintetiche, atmosfere ripetitive, ipnotiche, magnetiche e robotiche, manipolazioni digitali imperniate su bonghi allucinogeni, BPM metronomici e paesaggi visionari electro-ambient, che riecheggiano negli anfratti oscuri metropolitani, quale soundtrack di sottofondo alle luci e ai rumori della civiltà industriale.

Le otto tracce di Rohstoff, al servizio di una perizia rigorosamente strumentale, e senza aggiungere soluzioni artistiche innovative, ci introducono in un lembo di memoria tutt’altro che recente: con questo nuovo capitolo discografico, gli Zement si proiettano alla volta di scenari sconosciuti, multiformi e retrofuturibili, ma conservando a temperatura ambiente quei dettami di matrice germanica che, agli albori degli anni ’70, diedero inizio a tutto ciò che fu etichettato (potrebbe essere etichettabile) come “post rock sixties”, levigando e vivisezionando, all’interno dello stesso pentagramma anatomico, percezioni emotive e fonografiche, forgiandone sagome e misure, al di là di ogni paradigma dello spazio e del tempo.

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