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A Shoreline Dream: la recensione di Melting

Un punto equidistante tra ordine e caos: parliamo di Melting, il nuovo album degli A Shoreline Dream.

A Shoreline Dream

Melting

(Latenight Weeknight Records)

shoegaze, alternative rock

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A Shoreline Dream Melting recensioneLo shoegaze, genere nato nel Regno Unito sul finire degli anni ’80 e rapidamente messo in ombra dall’avvento del britpop, ha lasciato al mondo più figli di quanti si creda e il progetto A Shoreline Dream è, sicuramente, uno di questi.

Già dalle prime note di Turned Too Slow, infatti, l’ascoltatore viene calato nell’atavico contrasto tra armonia e caos, espresso, qui, dalla melodia soave e sognante delle tastiere e dal suono acido e distorto delle chitarre; il fattore dreamy si potenzia con la voce di Ryan Policky, soffusa e mescolata fra stesure delicate e vagonate di riverbero, la quale si mostra degna delle migliore interpretazioni di Bilinda Butcher.

Nonostante la band si conceda diversi azzardi, prevalentemente durante l’opera di missaggio dove ricerca (volontariamente) una mancanza di equilibrio sostanziale tra i vari strumenti (come testimonia il ritornello assurdo di The Tempting Flood), Melting si rivela essere un lavoro coerente e piuttosto lineare, in grado di mantenersi con educazione dentro le regole del buongusto almeno per il 95% della sua durata.

Il concept shoegaze del disco viene arricchito da una sostanziosa venatura alternative rock e da svariate sfumature progressive, particolarmente apprezzabili in Downstairs Sundays (breve intermezzo semi-acustico) e nella conclusiva Atheris Hispida; oltre a queste appena citate, sono degne di menzione anche la title track dell’album, Seek to Hide (altro singolo estratto dalla release) e The Oceans Above, capitolo maggiormente legato alle atmosfere originarie di Loveless e dei My Bloody Valentine.

In ultima analisi, possiamo affermare come Melting sia un album scorrevole, ricercato e (soprattutto) interessante, con cui gli A Shoreline Dream donano nuova linfa vitale a un genere spesso dimenticato ma ancora fertile e poco coltivato, senza creare novità né facendo rivoluzioni ma, semplicemente, valorizzando ciò che già c’è e che già esiste e che, come diceva Massimo Zamboni nel documentario Tempi Moderni (1989), è sufficiente per realizzare centomila canzoni e altrettanti dischi.

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