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Sophia: As We Make Our Way

Dopo quasi sette anni dall’ultimo album, tornano i britannici Sophia con As We Make Our Way (Unknown Harbours), un lavoro che mischia i toni malinconici alle chitarre acustiche e ai sintetizzatori. Ascolta l'album in streming

Sophia

As We Make Our Way (Unknown Harbours)

(Flower Shop Recordings)

folk-pop

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Sophia- As We Make Our WaySembra incredibile eppure sono passati 7 anni dall’ultimo lavoro dei (di) Sophia, che oggi ritornano più in forma che mai con il nuovissimo As We Make Our Way (Unknown Harbours)

Il primo brano, Unknown Harbours, inizia con un piano che mi ricorda l’arpeggio di The Sound Of Silence. Ovviamente il brano si discosta significativamente dal celebre classico, eppure il mood di malinconia che lo caratterizza continua a percorrere nella mia mente parallelismi interessanti.

E le prime parole pronunciate da Robin Proper-Sheppard (titolare del “marchio” Sophia, ensamble che ha una formazione piuttosto cangiante e liquida) nella narco-elettrica Resisting paiono confermare i presupposti anzidetti, “Avremmo potuto piangere tutto il giorno, eh sì, credo che qualche volta lo abbiamo anche fatto”.

La malinconia è certamente il sentimento preponderante anche nelle successive The Drifter e Don’t Ask, nelle quali un arrangiamento acustico mette in risalto una vena compositiva ferita e, forse proprio per questo, sin qui succulentemente prolifica.

Blame frena bruscamente l’andare liscio del mio ascolto. E’ un episodio che non riesco a digerire di filato, forse per via di quel ritmo spigoloso che accompagna una melodia che non sa coinvolgermi.

Anche California, pur mantenendo la solita eleganza formale, è patinata proprio come ogni cosa che riluccica sotto il sole della West Coast.

La successiva St. Tropez/The Hustle è l’episodio più “deviante” del disco, nel senso che si discosta in maniera netta rispetto al resto e, sarò sincero, mi ha creato una certa difficoltà di messa a fuoco che ho provato a risolvere andando a leggere altre recensioni sparse qua e là sul web.

Ma, come volevasi dimostrare, la cosa mi ha confuso ancor di più le idee, considerato che il minimo comun denominatore di tutte, nell’analisi di questo brano, è il termine “elettronica” (tripudio di elettronica, esplosione di elettronica, ecc.), cosa che è sostanzialmente vera sebbene la spina dorsale della canzone sia, paradossalmente (?), una ritmica di chitarra acustica!

E poi perché, in più di una, ho trovato rimandi al sound dei The God Machine (la band in cui militava Robin e che s’è sciolta per l’improvvisa scomparsa di uno dei componenti), fattispecie che mi ha fatto riflettere sul fatto che l’era social –nel suo senso aggettivale più ampio – ha dato a tutti il diritto di parola ma anche la possibilità di copiarsi senza troppi pudori, creando una certa omologazione del pensiero più superficiale alla quale io non mi voglio conformare, a rischio di scrivere puttanate su artisti che spesso e volentieri scopro recensendo.

You Say It’s Alright sarebbe stata probabilmente geniale, o almeno così avrei scritto io, se a cantarla fosse stata Simon Le Bon. Invece, in questo contesto, i sintetizzatori e la voce eterea mi appaiono una forzatura allo stile tutto sommato minimalista che, finalmente, ritorna in Baby Hold On a riprendere il discorso lì dove l’avevano interrotto.

Il brano di chiusura, It’s Easy To Be Lonely, già dal titolo lascia spazio a un’interpretazione che si incontra a metà strada tra la rassegnazione e la speranza.

Proprio nel punto esatto in cui si ferma la band britannica che, con questi dieci brani educati ed edulcorati, non riesce a compiere quel definitivo passo in avanti in direzione del “qualcosa verso cui sta’ correndo”.

 

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