We Are Waves
Promixes
(MeatBeat Records)
wave
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A maggio dello scorso anno usciva il secondo disco dei torinesi We Are Waves: Promises. Dopo sei mesi di concerti e promozione dell’album, Fabio Viassone e compagni hanno deciso di darci una versione differente di alcuni di quei brani, vestendoli quasi esclusivamente di elettronica e synth. Il risultato è un EP dal titolo emblematico: Promixes. Ci tengono a sottolineare che a dispetto del nome scelto per il lavoro in questione, non si tratta solo di una serie di remix, ma di un mini album che, pur ripescando alcuni brani del precedente LP, ne rilegge completamente l’attitudine vestendosi di nuovo.
I pezzi che compongono Promixes sono cinque. Quattro arrivano, come detto, dal precedente disco e sono presentati con una scaletta “al contrario” partendo, cioè, dal brano che chiudeva il disco: What Happened Today Is Useless mette subito in chiaro tutto ciò che ascolteremo nella mezz’ora scarsa di musica che i piemontesi propongono.
Le atmosfere sono molto meno rarefatte, i ritmi sono decisamente più incalzanti e su tutto aleggiano bassi wobble di matrice dubstep, synth di chiaro stampo Depeche Mode ed una spinta verso una matrice electro che si rifà comunque al passato, nello specifico allo stile in voga nei primi anni zero.
Nonostante le note che accompagnano il lavoro sottolineino l’intenzione di affacciarsi al “tempo dello streaming” (cito testualmente), la direzione che prendono i brani, anche in questa veste, è comunque orientata più al passato che al futuro. Una sorta di comfort zone che per certi versi risulta essere una coperta troppo corta.
In Midnight Ride spariscono i fantasmi dei Cure, ma compaiono riflessi di Bauhaus e Tears For Fears scompigliati. Sembra siano passati dentro al frullatore di uno Skrillex annoiato, col pilota automatico, e consegnati come cagnoloni bagnati fradici davanti alla porta di casa.
Children Lake tiene fede a quanto fin qui ascoltato, aggiungendo solo un po’ più di essenza Depeche Mode ai riff e gli incisi, dove nella precedente incarnazione del brano i soliti Cure e gli U2 prima maniera facevano da sponda ad echi cotonati di Virgin Prunes. La passione per i suoni dubstep viene ancora più accentuata nella breve sezione strumentale al centro del brano.
Be Your Own Island, che nella prima versione aveva suoni che rimandavano a Japanese Whispers, qui viene resa più cattiva e sembra quasi un pezzo di Soft Moon, se non fosse per il solito basso wobble ed il vocoder à là Daft Punk che non ti aspetti. Probabilmente, dei quattro, ne esce fuori come l’esperimento più riuscito.
Completa il set la cover di How Soon Is Now? degli Smiths, riproposta quasi tale e quale all’originale, con tanto di chitarra col phaser a manetta. Condita, ovviamente, di un imponente strato di elettronica, l’onnipresente wobble ed altri effetti di cui sopra. Il risultato non dispiace, ma il merito è anche della qualità del brano scelto e della scrittura di cotanti autori.
Tirando le somme, nel complesso il disco è godibile e rappresenta davvero un punto di vista alternativo alla wave che di solito i We Are Waves propongono. I difetti, purtroppo, sono quasi uguali a quelli del disco di un anno fa: la poca personalità che traspare dal suono e dalle soluzioni armoniche. Si intravedono troppi riferimenti e troppo importanti, al punto da sovrastare l’identità musicale di una band che dimostra anche in questa veste una cura maniacale per i dettagli, una precisione nell’esecuzione degna di nota ed una spiccata sensibilità artistica e notevole gusto.
Quando loro troveranno il coraggio per osare puntando di più sulla loro personalità e meno sui modelli e su quella comfort zone in cui si muovono alla perfezione, noi troveremo una grande band pronta a stupirci. Per ora non ci resta che attendere la prossima prova.
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