Summercase 2007 – Madrid
Boadilla del Monte, Madrid, 13 – 14 luglio 2007
live report
8/10
Il Summercase è un festival giovane, è solo alla seconda edizione, ma è già molto agguerrito. Quattro palchi, un programma goloso per gli appassionati di tutte le età, per gli amanti dell’indie e per gli avvezzi al mainstream radiofonico, con band come Editors e Bloc Party, Jesus & Mary Chain e OMD, Lili Allen e Scissor Sisters.
Molto aspra, ovviamente, la polemica col Fib di Benicassim. Il festival “urbano”, infatti, s’è posizionato giusto una settimana prima del festival “balneare”, andando a una vera e propria asta per ottenere i nomi più appetibili da mettere in programma (Chemical Brothers, Arcade Fire, Scissor Sisters) o spettacolari esclusive (Pj Harvey, Jesus & Mary Chain). Per gli Arcade Fire e per i Chemical Brothers i bene informati sostengono che la Sinnamon ha sganciato mezzo milione di euro a band per due concerti (!); se ci mettete poi che i fratellini chimici hanno partecipato a ben sette edizioni del Fib e che gli Scissor Sisters in Spagna sono stati praticamente promossi da Benicassim … capirete bene come il livello della polemica sia stato particolarmente alto.
Mutuando le formule inglesi, il Summercase ha avuto un’aggressiva politica di prezzi che ha premiato chi ha datto fiducia alla Sinnamon, l’organizzazione, con il biglietto che è aumentato di prezzo via via che s’avvicinava il festival (partendo dagli 80 euro di gennaio e salendo fino ad aumentare del 50%). Sempre secondo un modello anglosassone, il Summercase si svolge contemporaneamente a Madrid e Barcellona, in due giorni in cui i cast vengono invertiti (in pratica chi suona il venerdì a Madrid suona il sabato a Barcellona e viceversa).
Noi di RockShock abbiamo deciso di seguire il Summercase Madrid, il vostro cronista e il nostro fidato Vincenzo Riggio, per una volta lontano dal “metallo urlante” di cui si occupa per il nostro webmagazine.
Ecco com’è andata.
Il festival si svolge a Boadilla del Monte, un quartiere residenziale appena fuori città, servito anche dal metrò leggero.
In realtà l’area del festival non è altro che il margine di una serie di cantieri edili, con purtroppo il terreno fatto di pietriccio e terra battuta, con conseguente gran polverone nei polmoni oltre a tutto il resto che circola nell’aria, dato che gli spagnoli ci danno dentro davvero di brutto con qualsiasi tipo di sostanza in grado di alterare gli stati di coscienza, dall’alcol in su, senza tuttavia (quasi mai) diventare molesti.
Davvero singolare è la vicinanza del recinto dei concerti con la zona residenziale, con inevitabile coro mediatico di lamentele per il sonno perso degli sfortunati abitanti delle zone limitrofe (in verità il primo giorno abbiamo per errore lasciato la macchina molto distante dall’area del festival: dopo aver camminato per venti minuti ancora per il paese di sentiva il tunz tunz di Felix Da Housecat!). Per fortuna dei residenti è già stato annunciato che il prossimo anno il festival si svolgerà nella Città Finanziaria di Boadilla del Monte, in particolare nello spazio antistante il Banco de Santander (che dovrebbe essere privo di polverone e più distante dalla zona abitata).
L’organizzazione del festival è una macchina ad orologeria perfettamente oliata: dal ritiro degli accrediti alla puntualità dei concerti, dalle fontanelle messe a disposizione del pubblico agli impianti audio-luci, tutto è ai massimi livelli.
Quattro i palchi allestiti per la manifestazione. Due all’aperto, giganteschi e gemelli (Terminal O e Terminal E), una tensostruttura da circa 9.000 posti (Terminal S) e una più piccola da circa 3.000 (Terminal N). I tre palchi più grandi dotati anche di maxischermi, mentre in verità il Terminal S avrebbe avuto probabilmente bisogno di qualche watt in più.
Il pubblico ha comunque dimostrato di apprezzare ed è accorso in massa (circa 54.000 persone in due giorni, con pochissimi stranieri, dato anche che l’area non dispone di un camping).
Ma veniamo alla musica. Purtroppo, come sempre accade, il meccanismo stesso di un festival costringe a scelte: a volte dolorose, a volte fatte con la testa e a volte col cuore, ma qualcosa va inevitabilmente perso tra i 28 concerti al giorno proposti. Il percorso tra i concerti che abbiamo scelto, quindi, è stato una scelta squisitamente personale, determinato dai gusti o dalla semplice opportunità/facilità di vedere altrove una band rispetto alla rarità della proposta.
Venerdì 13 luglio.
Badly Drawn Boy è incurante dei 37 gradi che incombono a Boadilla del Monte e tiene il zuccotto di lana (o stavolta è di cotone?) ben calzato in testa fino alla fine del suo set. Certo suonare quasi in apertura di festival, “a core de caldo”, come si dice a Roma, col sole ancora alto non è facile. E’ da suicidi scegliere di suonare in acustico la parte centrale del concerto, tra il chiacchiericcio generale. Il suo pop poetico però infiamma i fedelissimi delle prime file, che non gli risparmiamo ovazioni. Bravo, nel posto sbagliato all’ora sbagliata.
Il Terminal N invece ben si addice alla performance dei My Brightest Diamond, per nulla intimiditi dall’interruzione di corrente che li costringe ad interrompere la terza canzone, scusa che trasforma Shara Worden in una improvvisata quanto divertente ballerina. Il loro concerto convince ben al di là delle più rosee aspettative, smussando il loro lato dream a vantaggio di sonorità più indie e più adatte ad un live.
Dj Shadow suona alle 22 su uno dei due palchi grandi. Il sole sta tramontando proprio ora, ma lui spara lo stesso le sue bordate di hip hop strumentale oscuro e dannato, influenzato tanto dal jazz quanto dall’ambient. Funestato da alcuni problemi tecnici (ha addirittura dovuto riavviare il suo iMac) e da qualche chiacchiera di troppo nella fase iniziale, il suo set è ben presto decollato in un trip psichedelico ed acidissimo, fatto soprattutto di b-sides ed outtakes della sua sterminata produzione. Le proiezioni in computer animation 3D, non particolarmente innovative ma efficaci, aiutano il pubblico ad esaltarsi in un concerto riuscito a metà (la seconda parte), ma con la parte buona di livello eccezionale nonostante sul palco ci sia ben poco da vedere (Josh Davis piegato sui sui quattro giradischi a lavorare di scratch) e solo un po’ da ballare.
Jesus and Mary Chain e OMD: il mio cuore di quarantenne comincia a battere all’impazzata. I primi non si fanno per nulla intimorire dalla folla sterminata che li accogli sul palco grande. La reunion dei fratelli Reid e soci non è il solito “prendi i soldi e scappa”: sono infatti già al lavoro su un nuovo album, di cui stasera ci danno un paio d’assaggi. I classici del passato sono tutti in scaletta, Happy When It Rains, Just Like Honey e Snakedrivers creano dei veri e propri sussulti a chi quella stagione l’ha vissuta da adolescente. I due brani nuovi hanno lo stesso sound dei vecchi, ma ovviamente un solo ascolto non dice nulla di definitivo.
Orchestral Manoeuvres In The Dark (OMD per gli amici): il tempo sembra essere passato solo per via dei chili in più e della calvizie di Paul Humphreys, mentre Andy McCluskey continua a cantare e a muoversi come se venticinque anni non fossero passati. Enola Gay apre subito il set. Ed è subito delirio. Il Terminal S è zeppo all’inverosimile, con tanta gente anche fuori, a cantare a squarciagola Souvenir o Dreaming, giusto per citare solo alcuni della sterminata sfilza di singoli che hanno piazzato un posto in hit parade e nel cuore degli appassionati di pop elettronico e romantico. Questo tour è pura nostalgia, suffragata dall’uscita di un imminente Dvd e di una raccolta (singola o in quadruplo Cd), ma va bene così.
Che i !!! fossero bravi lo sapevamo già (li avevamo visti in azione qualche anno fa a Benicassim e di recente a Roma), ma che fossero più bravi ad ogni concerto non era cosa così scontata. Preferendo suonare prevalentemente la loro ultima fatica, Myth Takes, hanno finalmente allentato le tensioni che rendevano spesso litigiosi i loro concerti, concentrandosi sulla musica e offrendo uno spettacolo fra i migliori in assoluto di tutto il Summercase (perché li avete fatti esibire nella tenda del Terminal S e non su uno dei palchi grandi, dove avete messo gli sciapi Phoenix?). Nic Offer è un enterteiner nato. Canta a squarciagola, balla, esalta la folla e quando la band si protrae in incredibili session strumentali lui non perde occasione per arrampicarsi ovunque e far impazzire tutti con le sue movenze irresistibili, ma il vero motore della band è la sezione ritmica (basso, batteria e percussioni). La forza dei !!! sta nell’aver fatte proprie le sue influenze (Clash, Gang of Four e Talking Heads su tutti), di averle masticate e risputate in una forma nuova, che invita alla danza e che non smette mai di stupire per intelligenza e fantasia. Da non perdere, dal vivo come su disco.
I Chemical Brothers questa volta hanno (per quel che mi riguarda) due problemi: li ho già visti quattro volte (e quindi non mi stupiscono più) e il loro ultimo disco, We Are the Night, è davvero bruttino. Appaiono minuscoli davanti al loro schermo semitrasparente su cui parte uno spettacolo video di altissimo livello e dietro il quale il light show è di una meticolosità, precisione e spettacolarità da manuale. Sono le 3.30 quando cominciano a suonare (d’altro canto … noi siamo la notte) e cominciano con Galvanize. Al banco mixer ci vogliono un paio di pezzi per aggiustare il suono (e capire che devono alzare il volume), giusto in tempo per Do It Again, proposta in una versione davvero irresistibile, ben lontana dalla scialba radio edit che impesta l’etere (ma d’altro canto circolano già molti remix uno meglio dell’altro). Lasciano fuori scaletta Block Rockin’ Beat, mentre per il resto i grandi successi di sempre ci sono un po’ tutti, per fortuna riducendo complessivamente a tre gli estratti dal nuovo album. Per loro valgono le considerazioni di sempre: si tratta dell’antitesi di un concerto, dato che quasi tutto è su base, ma allo stesso tempo è davvero impossibile non rimanere a bocca aperta di fornte al loro spettacolo audio-visuale e rimanere fermi con nelle orecchie i ritmi indiavolati della loro personalissima visione psichedelica dell’elettronica. Da vedere almeno una volta.
Felix Da Housecat lo lasciamo galvanizzare i più di diecimila che ancora non hanno voglia di andarsene a casa. Per noi, arrivati alle 16 a Madrid da Roma e alle 19 già a Boadilla del Monte con l’accredito al collo, è ora di andare a fare la ninna. Anche perché domani sarà altrettanto lunga.
Sabato 14 luglio.
Oggi c’è più gente di ieri sin dalle prime ore d’apertura. Sarà che è sabato, sarà che in cartellone ci sono nomi più in voga tra gli spagnoli, ma per gli Editors c’è già il pienone. E’ vero, la loro ricetta post-punk che affonda le radici negli anni ’80 (ancora loro!) lascia poco spazio a botte di vita, ma funziona e convince. La band suona compatta e granitica, canzoni come Bullets o Munich non passano inosservate neanche dai più scettici, convincendo tutti su una band che i dolori, probabilmente, li dovrà affrontare col prossimo disco, quando un rinnovamento della formula sarà d’obbligo. Per il momento … va bene così.
Lily Allen è una vera e propria offesa alla Musica e al pubblico. Non si capisce cosa ci fa in un festival del genere, passa più tempo a ragguagliarci sulle misure (minime) del suo ex ragazzo che a cantare le sue (inutili) canzoni, coadiuvata da una band senza batterista (!) che fa quello che può (poco).
The View e The Whitest Boy Alive hanno la stessa visione di festival = fiesta. Quella che è mancata a PJ Harvey. Polly Jean si presenta davanti a una platea zeppa all’inverosimile e trepidante, ma … è pur sempre la platea di un festival, in cui il livello di concentrazione non può essere altissimo come richiesto dalla sua performace in solitaria. Arreda il palco come se fosse la sua cameretta, con tanto di ninnoli sul pianoforte, lucine colorate e plaid sullo sgabello. Lei arriva vestita con un abito bianco d’epoca, una bella copia di quello della Sposa Cadavere di Tim Burton, imbraccia la sua chitarra e parte con uno spettacolo intenso ed emotivo, ma più adatto a un club piuttosto che a uno spazio immenso e, per forza di cose, a basso tasso di concentrazione. Vecchi successi e canzoni che andranno a popolare l’album in uscita a settembre non lasciano però troppo sperare in impennate: l’esodo di parecchie persone verso altri palchi è inesorabile.
Più o meno contemporaneamente i The View sparano watt su watt della loro miscela di indie rock di fronte a un pubblico non troppo numeroso ma molto caloroso. Va meglio, per quantità di audience, ai The Whitest Boy Alive di Erlend Øye (ex The Kings of Convenience), che scatenano l’entusiasmo collettivo con un pop semplice e positivo, che mette allegria e perfetto per la platea di un festival. Loro sono emozionatissimi e felici, quasai increduli davanti a tanto entusiasmo e costretti dagli stessi organizzatori (caso più unico che raro in un festival) a un bis. Se vi capitasse di travarli in giro non fateveli scappare.
Una delle band più attese è senza dubbio Arcade Fire, che radunano quasi tutto il pubblico del festival per il loro concerto neo-hyppie barocco ed etereo che si svolge su un palco complesso, ornato da cinque piccoli schermi circolari che rimandano le immagini dei musicisti o videoproiezioni. A costo di inimicarmi molti dei lettori di questa pagina, vi confesso che faccio davvero fatica a capire il perché di tanto entusiasmo per una band che rende fin troppo visibili le sue origini folk, abbracciandole senza farle proprie e/o rimaneggiandole in qualcosa di diverso. Ma i miei colleghi criticatutto sono tutti un coro unanime di lodi, anche se il pubblico del Summercase applaude ma non si entusiasma più di tanto. Per cronaca, il concerto è terminato con una pioggia di margherite sulla platea.
Anche per i Bloc Party c’era grande attesa, aspettative non tradite da una band sufficientemente carismatica e furba da allestire uno show in cui si alternano i pezzi dei due album fin qui pubblicati. La loro miscela di influenze della prima new wave inglese più il noise dei primi Sonic Youth più i soliti Gang of Four dal vivo funziona benissimo, lasciando spazio al divertimento, alla potenza e a una discreta fantasia negli arrangiamenti. Ovviamente anche i “nostri” sanno che il loro secondo disco è ben più fiacco del primo, ma la scaletta che allestiscono fa filare tutto liscio, creando un buon mood e lasciando esprimere tutte le qualità dei musicisti.
Tutti pazzi per LCD Soundsystem. Forti di un successo discografico planetario, oltre che di un tam tam mediatico senza precedenti, la band di James Murphy fa ballare davvero TUTTI. Non c’è molto di più che una serie di ritmi irresistibili e trascinanti, la tastierista dai tratti asiatici fa davvero poco, ma poco importa. Daft Punk is Playing at my House arriva per seconda: ed è delirio. La concezione di dance music degli LCD Soundsystem non lascia scampo: è impossibile stare fermi.
Così come è impossibile non lasciarsi trascinare dalla pazza festa messa in scena dagli Scissor Systers. Seppure l’effetto sorpresa di qualche anno fa è ormai svanito, il tasso di divertimento è altissimo. E’ vero, la loro musica è un mix riconoscibilissimo che di volta in volta affonda a piene mani da Bee Gees, Duran Duran, Elton John, Queen, Village People e chi più ne ha più ne metta, ma la band suona che è una bellezza, arricchita da due fiati, è le canzoni sono sempre piacevoli, orecchiabili e scorrevoli: una vera iniezione di buon umore con un pizzico di follia e uno di trasgressione. Al momento ci basta, il futuro ci dirà se la band sarà in grado di maturare e prendere una strada più personale o se, come scommetterei, si disgregherà sotto l’ego smisurato dei due cantanti, probabilmente ognuno con una personalità troppo forte per convivere sullo stesso palco ancora a lungo.
A chiudere le danze, è proprio il caso di dirlo, i 2manydjs. I due fratelli (veri) di Anversa trovano decisamente più redditizio giocare con i piatti e le scatole effetti piuttosto che portare avanti la loro creatura elettrica, i Soulwax. Ad ogni modo, sono dei gran furbacchioni, in grado di far saltare in aria a comando la folla impaziente di ballare qualsiasi cosa, dalla techno più spinta ai Nirvana, dai Cipress Hill ai Depeche Mode. Qualche sbavatura e qualche pausa di troppo non impediscono a una folla disumana di divertirsi e saltare tutto il tempo, nonché di gridare a gran voce – inutilmente – la continuazione del set, alle 6 implacabilmente interrotto, come da programma.
Con loro si spengono definitivamente gli amplificatori dell’edizione 2007 del festival.
Ritorneremo al Summercase? Claro que sì!!!!
Grazie a Fernando Yañez della Sinnamon per la collaborazione; un saluto e un grazie a Monica e Cema per la carica di simpatia che ci ha aiutato a superare anche i momenti di maggiore stanchezza.
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