Elettronoir
E che non se ne parli più
(Autoproduzione)
wave
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Negli anni Settanta andavano di moda i concept album, contenitori nei quali ogni brano era una short-story a sé stante e al tempo stesso la tesserina di un puzzle che andava a tratteggiare una narrazione di eventi di ben più ampio respiro.
E Che Non Se Ne Parli Più degli Elettronoir, terzo capitolo di una trilogia iniziata con Dal Fronte Dei Colpevoli (2005) e proseguita con Non Un Passo Indietro (2008), ha proprio le caratteristiche di uno sceneggiato ad episodi. Solo che qui lo script non è di fantasia ma va a ripercorrere la storia d’Italia o, meglio, una certa storia d’Italia, in un arco temporale ben delimitato che è quello che va dal 1977 al 1982.
E lo fa con dei brani eleganti, gradevoli all’ascolto anche se non propriamente immediati. Elettronica, new wawe, elettropop, comunque la si voglia definire questa autoproduzione ha certamente un carattere forte e non ha paura di schierarsi.
Saturazione, Pasolini, gli anni di piombo, Andrej Tarkovskij, il carcere, e poi un sacco di citazioni colte che, a un certo punto, lasciano un po’ perplessi proprio per la loro abbondanza. Ridondante? Sì, lo confermo, i troppi richiami alla lunga mi hanno annoiato come un film di Woody Allen riuscito male.
Ci sono anche concessioni alla melodia come Rio e la strumentale Asfalto.
In Avanti è di nuovo il piano a farla da padrone in un’agonia crescente che ben si accompagna alla lirica sofferta.
Interessante la linea vocale di Marco Pantosti ma, proprio quando ti stai abituando ad una certa linearità cantautoriale, ecco che il fiato dell’arpeggio è spezzato da loop stridenti.
Arbre Magique, in cui imperversa l’ugola tagliente di Giorgia Lee Colloridi che vagheggia -ci scommetto in modo del tutto involontario- i Matia Bazar, è una critica a tratti arguta a tratti autoindulgente ad alcuni status quo dei nostri tempi.
L’attacco di Intervallo è degno di alcune canzoni moderne di vecchie rockband che si sono adeguate ai gusti delle nuove generazioni. La differenza sta nel fatto che la sferzata di chitarra elettrica, qui, non arriverà mai.
L’utilizzo di synth e drum-machine è massiccio, ma tutto sommato ben calibrato al contesto. Da profano immagino che questo album possa piacere moltissimo agli amanti del genere e, anzi, diventare addirittura cult. Del resto, questo E Che Non Se Ne Parli Più, è uno di quei cd che o si ama o si odia. O, forse più propriamente, che si capisce oppure no.
Proprio il mese scorso a Torino si è conclusa una bella mostra di arte contemporanea intitolata Shit and Die, dove la provocazione era evidente sia dal titolo nel suo complesso che dall’anomalo utilizzo di shit nella forma verbale anziché sostantiva. Una delle opere più contraddittorie della rassegna era certamente una passerella in legno poggiata su della terra seminata e annaffiata ogni giorno alla cui evoluzione contribuivano attivamente tutti gli spettatori che, camminandoci sopra, ne modificavano la composizione e quindi l’evoluzione finale, diventando a loro volta co-artisti. E, certamente, un filmato lunghissimo ad inquadratura fissa in cui un aitante boscaiolo era instancabilmente impegnato nel segare il tronco di un albero. Il senso dell’opera? Chiarissimo (o no?): il fallimento dello spettatore. Già. Perché il momento significativo che straccia il climax monotamente morigerato di questa esplosione artistica, l’abbattimento della pianta, dura pochi secondi e arriva dopo parecchie ore di proiezione quando la mostra è già chiusa cosicché nessuno, se non i curatori e gli addetti ai lavori, potranno mai coglierlo e saperlo. Ed è qui che il giudizio si spacca: arte per pochi avanguardisti dall’intelletto estroso? O, giacché la volontà dell’artista è proprio quella di lasciare sospeso il suo fruitore per sancirne, appunto, il fallimento, un eccezionale colpo messo a segno?
La digressione è, ovviamente, volano che proietta in immagini il mio stato d’animo all’ascolto di questo disco, il medesimo che mi coglie ogni volta che mi ritrovo di fronte alla maggior parte delle opere o delle installazioni di arte moderna: forse io non sono in grado di comprenderlo, ma ci sarà un motivo se uno spazzolino da denti dentro un bicchiere è esposto al Moma!
E per questo ogni volta che sono a New York ci ritorno e ci ritorno e ci ritorno e ho perfino copiato le diciotto canzoni (tutte brevi, e questo è un pregio per la loro fruibilità) sul mio lettore mp3 portatile.
Il fatto poi che la cronistoria si chiuda con un tappeto sonoro che accompagna la memorabile telecronaca di Nando Martellini della finale mundial al Santiago Bernabeu mi ha fatto riflettere su quello che potrebbe essere il significato di questa scelta. Ottimismo. Speranza nel futuro nonostante tutto. Patriottismo. Oppure potrebbe essere il j’accuse ad un popolo che nelle frivolezze si bea, che (ri)scopre la sua vanità e unità ogni volta che c’è da saltare sull’affollatissimo carro dei vincitori e che fa presto a buttare sotto al letto tragedie e follie.
O forse è tutto molto più semplice e gli Elettronoir vogliono solo che l’ascoltatore fallisca. Oppure che sia egli stesso ad incidere il finale che vuole diventandone co-autore.
Sì, mi piace pensarla così.
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