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Savages: Silence Yourself

Quattro ragazze da non far incazzare le Savages. Nel loro primo album ufficiale, Silence Yourself, la band di Londra ci mostra i denti e tanta bella musica. Per tenere sempre vivo il verbo post-punk

Savages

Silence Yourself

(CD, Matador)

post-punk

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[youtube id=”kim-REn8ecg” width=”620″ height=”360″]

All’inizio lo ascolti, Silence Yourself, e rimani un po’ scettico, sembra tanto casino che non arriva a comunicarti molto.

Magari non è il tuo genere preferito ed essendo un disco cupo, in momenti non proprio felici, quattro ragazze che ti urlano di star zitto (Silence yourself) non è proprio il massimo; ma poi rimetti play dalla cartella Savages, le ascolti con attenzione e ti accorgi che c’è ben altro di solo casino e oscurità.

La cantante, Jehnny Beth, è energia pura; capello corto e giacchetto di jeans; sembra nata da una costola di Ian Curtis. Jehnny conduce la band verso un sound personalmente ispirato da gruppi come Joy Division, Siouxie e Cure ma dando a tutto il malloppo uno stile unico.

Il disco sembra un urlo straziante di un amico, uno sfogo in pieno rock a gridare insofferenza e alienazione. Cercano il concept album, le Savages, il conseguirsi delle canzoni è spesso impercettibile come a voler trasmettere un unico grande “concetto”, ma questa intenzione le porta a dare personalità a poche tracce:

Shut up: prima traccia del disco, potente, fatta di pause e riff cavalcanti. Ci disturba al punto da piacerci. She will: il giro di chitarra rimane in testa, pause e un crescere e descrescere per raccontare una donna e la sua personalità, poche parole che pungono al ritmo cupo e deciso del loro intento.

Husband: quí cresce l’urlo di non appartenenza e disprezzo che si fonde con la voce impazzita di Jehnny. Marshal Dear: ballata, ultimo pezzo del disco, brano più riflessivo dove spunta la fragilità che si trasforma in rabbia. “can you hear me now Silence yourself

Unica nota negativa è la sensazione che a tratti l’album risulti “costruito”, che manchi di quella “non perfezione” tipica del punk, inconfondibile segno di un’insofferenza che doveva venir fuori a qualunque costo. Non puó esserci perfezione o contenimento nel descrivere rabbia e ineguadezza, esse creano scompiglio e deformazione e solo un atto artistico di tali caratteristiche puó descriverle chiaramente.

Un bel disco comunque.

Dove degustarlo: live, magari a un bel festival estivo (come hanno fatto i colleghi Garofalo, Riggio e Masciovecchio al Primavera Sound).

Con cosa accompagnarlo: Gente incazzata, mariti e mogli insopportabili e un bel pogo.

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Roberto Spigarelli
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