La Gran Bretagna, da sempre baluardo dell’industria discografica, nel primo semestre di quest’anno registra un brusco calo delle vendite di dischi, gettando le etichette discografiche in una crisi ancora più profonda. E da cui non si vede uscita.
50 milioni e mezzo gli album venduti nel primo semestre del 2011 in Inghilterra. 43,6 quelli venduti nello stesso periodo quest’anno. 7 milioni di pezzi in meno non sono certo bruscolini.
E a poco valgono i confortanti dati di vendita di musica digitale (+ 17,3% per gli album e + 6% per i singoli) e/o i ricavi (in crescita) dagli abbonamenti per i servizi di streaming (in Italia praticamente inesistenti, nonostante gli sforzi di Telecom con Cubomusica).
Il trend è in corso dal almeno una dozzina di anni e il “diavolo” di volta in volta è stato dipinto con le fattezze della pirateria in generale e di Internet in particolare, che con le sue reti peer to peer e il download illegale per i discografici è l’origine di ogni male.
In realtà, dal nostro punto di vista, l’industria discografica s’è macchiata di una serie di errori molto gravi di cui paga ancora le conseguenze.
Lo spropositato prezzo (almeno iniziale) di vendita dei Cd rispetto a quanto costavano gli Lp in vinile. Finita l’euforia iniziale per un prodotto che prometteva vita eterna e straordinaria qualità di ascolto, il pubblico s’è sentito ben presto truffato quando ha scoperto che i costi di produzione dei Cd erano di un terzo rispetto ai costi di produzione dei vinili. L’avvento del peer to peer, quindi, è stata considerata come una specie di “vendetta” verso chi ci ha munto come vacche, senza alcun rispetto.
Il danno culturale che ne è conseguito è stato enorme. Il pubblico s’è abituato ad ascoltare musica, che magicamente “sgorgava” da ogni dove tramite il formato compresso Mp3, a bassa qualità, alla faccia della tanto decantata purezza del suono del Cd. Ma soprattutto è stato (ed è) il computer la principale sorgente di ascolto musicale.
In questo anche i produttori di hi-fi (altro settore in crisi nera come la notte) hanno le loro colpe, dato che hanno snobbato il fenomeno e hanno lasciato in mano ai produttori taiwanesi un mercato fatto di casse acustiche da 15/20 euro che hanno completamente disabituato il pubblico alla qualità dell’ascolto musicale. Quando alcuni produttori hanno tentato di correre ai ripari, con una miopia e un ritardo incredibili, i buoi erano già scappati dalla stalla. Ora l’hi-fi punta tutto sulla musica liquida, i file musicali ad alta risoluzione (la qualità d’ascolto è stupefacente, ben più alta di quella dei Cd), ma deve necessariamente semplificare l’uso dei player dedicati e riempire un vuoto culturale enorme.
E a nulla sono valsi i tentativi di blindare i Cd con sistema anticopia (DRM), nella vana speranza di arginare la pirateria, che il pubblico ha rimandato al mittente con forza.
Il danno culturale che stiamo pagando riguarda intere generazioni disabituate a:
- un ascolto attento e non in mobilità, come quello che consentono i lettori portatile di Mp3;
- pensare alla musica come qualcosa che sia frutto di ingegno, arte, fatica e denaro (costi di produzione) e non che arrivi quasi per cause naturali da ogni dove e che quindi non si deve pagare;
- considerare il “disco” come un progetto di comunicazione a tutto tondo, fatto di grafica, packaging, testi e musica;
- considerare con affezione la musica come prodotto/supporto fisico (in definitiva il minore dei mali).
Come se tutto questo non fosse abbastanza, ma forse anche a causa del disinteresse mostrato dal grande pubblico verso la qualità dell’ascolto, da almeno una mezza dozzina d’anni a questa parte è in corso la cosiddetta loudness war, ovvero una barbara tecnica di produzione, mixing e mastering che penalizza ulteriormente la qualità tecnica dell’ascolto a vantaggio di un volume più alto (!!!) (per i dettagli tecnici vi rimandiamo al link http://it.wikipedia.org/wiki/Loudness_war).
Ma non basta. Complice il drastico abbassamento dei prezzi di produzione/registrazione dei dischi apportato dall’avvento del digitale, le case discografiche hanno inondato il mercato di prodotti quanto meno discutibili, in cui la qualità artistica era (ed è) mortificata alla continua ricerca del singolo di successo, della next big think da piazzare in classifica.
La quantità dei titoli usciti ogni anno si è così moltiplicata a dismisura (e le etichette indipendenti su questo non è che siano state da meno), annacquando il mercato con uscite dal valore artistico nullo o quasi e/o da album di interminabile lunghezza da cui salvare solo due o tre pezzi, guarda caso quelli programmati come uscita anche in singolo. E allora perché comprare un album intero quando posso scaricare (gratis) solo le due/tre canzoni che mi piacciono?
Per non parlare dell’operazione talent show, ovvero la gallina dalle uova d’oro delle case discografiche, che con quattro soldi generano una serie di prodotti di successo, tutti uguali, che nella migliore delle ipotesi (tranne rare eccezioni) sono destinati a durare una stagione, periodo in cui vengono spremuti come limoni, in attesa dell’edizione successiva del contenitore-tv.
Le case discografiche, ingorde come qualsiasi multinazionale, hanno sovrastimato i potenziali ricavi della vendita dei file, inoltre allettate dalla possibilità di saltare la filiera tradizionale di vendita (casa discografica – distributore – rivenditore) e cercando quindi di tenere il grosso per sé. Ma ben presto i fatti hanno dimostrato che se anche le vendite dei file fossero uguali a quelle dei Cd, i ricavi sarebbero minori.
Qualcosa – forse – ai manager del disco potrebbero insegnare il mercato dei videogiochi e quello della musica dal vivo.
Il mercato dei videogiochi da sempre è stato interessato/funestato dalla pirateria, ma l’industria videoludica non ha mai fatto il piagnisteo delle case discografiche e, anzi, nonostante tutto fattura molto di più dell’industria della musica. La domanda, che si dovrebbero porre i discografici, è: perché?
I numeri/fatturato della musica live sembrano non conoscere crisi, nonostante i prezzi esorbitanti dei biglietti d’ingresso, ormai completamente fuori controllo. Il pubblico è disposto a pagare somme rilevanti per quello che considera un evento unico e irripetibile, segno inequivocabile che non è la musica ad essere in crisi, ma solo il mercato discografico.
Ma le case discografiche non sembrano voler imparare nulla da queste due importanti lezioni e per tutta risposta stanno facendo contratti agli artisti che implicano revenue sui proventi dei concerti e stanno entrando in società con le agenzie di produzione dei concerti e con le catene di prevendite dei biglietti.
Il futuro è meravigliosamente incerto.
E voi cosa ne pensate? Scrivete i vostri commenti.
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