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The National: recensione concerto Milano, Alcatraz, 16 novembre 2010

I The National sono la cosa più bella successa a Milano. Più o meno

The National

Milano, Alcatraz, 16 novembre 2010

live report

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the-national-live-2010I The National sono destinati a diventare i nuovo Arcade Fire, a ripeterne il successo, o i nuovi Coldplay, e ripeterne l’insulsaggine. Ma loro se ne fregano e grazie al loro veltronismo dilagante, vedi il buonismo che li accomuna al politico che non vuole più saperne dell’Africa, e soprattutto, grazie al vino bianco ingerito ogni sera dal cantante Matt Berninger, detto anche “non sono eterosessuale, non sono gay, sono Matt Berninger”.

Vestito di nero, il Nostro sembra quasi rannicchiato su se stesso, le placide Runaway e Anyone’s Ghost lo testimoniano e il pubblico dell’Alcatraz è tiepido. Mistaken For Strangers è insulsa e mal arrangiata, ma il pubblico comincia a karaokeggiare e Berninger a bere per la disperazione. La voce del nostro, perfetta, profonda, e il suo stare incurvato sul microfono, svogliato e debordante nella sua compostezza invincibile.

Bloodbuzz Ohio è l’orecchiabilità fatta persona e tutti si riattivano. Squalor Victoria tra urli screamo e tensione nera si rivela la perla della serata, Berninger ha il fiatone e maledice di aver regalato una canzone a Obama, maledice il fatto di non saper scrivere testi, di farli scrivere a sua moglie, ah! l’amore terribile. Quasi piango a sentire la coda fiatosa di Cardinal Song, quel suo incessante “Jesu Christ, you have confused me.

Sorrow è ormai un inno e Il Nostro viene deriso dagli altri tra una canzone e l’altra, quattro fratelli contro un amante del vino. Le luci e le immagini dietro entusiasmano quando c’è da angosciare, meno quando c’è da celebrare, vedi England, degli U2 religiosi con le immagini di una chiesa che vanno in dissolvenza con le facce dei Nostri tutti presi a suonare. Mah.

Fake Empire è una cosa dolce e intima e ci sono lacrime sparse ovunque. Durante Mr. November si avvertono i primi segni di cedimento di Berninger, canta peggio ed emoziona di più, fa fatica a stare in piedi e si aggrappa alle prime file, ride, urla, è furioso.

Terrible Love è la canzone del decennio: la purezza di una cosa sconclusionata. Scende dal palco, se ne sta in mezzo alla gente, canta alza il microfono, sale su una tribuna laterale, la gente è sconvolta, salta, lui canta perfetto pieno di gente attorno, qualcuno mi spinge da dietro, mi maledicono in trenta, arriva all’ingresso quasi, lui e il suo microfono, spingono verso i bagni, s’insultano, escono dalla porta laterale dell’Alcatraz, fuori qualche ragazza lo segue, entra nel Bus tour, se ne sta lì solo, dentro c’è l’eco della gente che suda, lui forse sorride. Dev’esserci un oceano. Di vino bianco e di talento.

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Federico Pevere
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