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Whitemary: recensione di New Bianchini

Affermatasi come uno dei 'nomi da tenere d'occhio' della scena 'indipendente' italiana, Whitemary con New Bianchini conferma ampiamente le attese, in un disco all'insegna di un connubio riuscito tra lavoro sui suoni e onestà emotiva.

Whitemary

New Bianchini

(42 Records)

indie, elettronica

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Quello di Whitemary è da almeno un paio di anni uno dei ‘nomi caldi’ della cosiddetta ‘scena indipendente’ italiana: un riscontro cominciato col suo EP di esordio e passato attraverso qualche tappa intermedia, prima di giungere all’esordio sulla lunga distanza (Radio Whitemary) di un paio di anni fa.

Ecco che, come sempre in questi casi, il secondo disco era discretamente atteso, soprattutto dai patiti di tutte quelle ‘manipolazioni elettroniche’ che flirtano volentieri con la dance, cercando però di mantenere un profilo possibilmente elevato.

Biancamaria Scoccia (abruzzese di nascita, romana di adozione) è del resto una ‘ragazza che ha studiato’: canto jazz innanzitutto, prima di dare libero sfogo alla propria indole ‘smanettona’ dedicandosi in toto o quasi a campionatori, synth e quant’altro.

Una giovane donna dalle idee decisamente chiare, fin dalla scelta di fare tutto da sé: scrivere, (ovviamente) cantare, costruire i suoni, produrre, curare la grafica delle proprie uscite: un’attitudine ‘Do It Yourself’ che a suo tempo fu distintiva del punk, e oggi troviamo in territori del tutto diversi, i tempi cambiano.

Eppure, in New Bianchini (il titolo deriva dal soprannome che usano gli amici, e questo dice qualcosa, sulla natura del disco), qualcosa di ‘punk’ c’è; e forse, vagamente qualcosa di ciò che venne negli anni ’90. La mia impressione è che se fossimo stati in un’altra epoca, Whitemary sarebbe stata forse in qualche grunge band al femminile.

Non c’entrano, ovviamente, i suoni, all’insegna della ‘cassa dritta’ e di tutto un lavoro sui suoni, sui campionamenti, sulle sovrapposizioni che ben poco ha di rumoroso, offrendo piuttosto qualche momento sghembo, parentesi vagamente oniriche.

Né c’entra il cantato, di certo non sguaiato, né gridato, anzi: all’insegna di un mood quasi sotto traccia, che episodicamente – ad esempio nell’incipit di Oh! Ma Dai – riscopre certe suggestioni jazzistiche, e che a tratti diventa vagamente seducente, quasi sexy.

C’entra di più quest’attitudine di Whitemary di parlare (e in effetti il suo cantato si mantiene costantemente ai confini della colloquialità) di sé stessa (pur senza dire troppo, ma spesso lasciando capire), dei rapporti interpersonali (Dite di Me, Mi Dispiac) a un pubblico ampio e indistinto, il che almeno in parte è un atto di ‘rottura’, in tempi in cui ormai di sé stessi si parla solo chiusi  tra quattro mura davanti a un psicologo.

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Marcello Berlich
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