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Primal Scream: recensione di Come Ahead

Come Ahead, il nuovo lavoro di Bobby Gillespie, e dei suoi Primal Scream, è un lavoro più che mai autunnale, che parte da riflessioni esistenziali, per allargarsi in uno sguardo impietoso su tutto ciò che non va nei nostri tempi.

Primal Scream

Come Ahead

(BMG)

indie, funk, dance

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A qualcuno potrà fare impressione che Bobby Gillespie, uno degli eroi della scena indie britannica degli anni ’90 e non solo, abbia ormai ampiamente superato i sessant’anni. Questo fa forse di lui un sopravvissuto o lo avvicina pericolosamente alla categoria dei ‘dinosauri’, fatto sta che, coi suoi e i tempi i suoi modi, il nostro continua a farsi vivo, più o meno sporadicamente, in questo caso a otto anni dal precedente lavoro.

Questo, di disco, è più che mai un lavoro di Bobby Gillespie più che dei Primal Scream, anche dopo la dipartita del tastierista Martin Duffy, l’unico membro storico rimasto è il chitarrista Andrew Innes, che anche alle tastiere stavolta si è dedicato.

Come Ahead in slang scozzese significa, più o meno, ‘Fatti Sotto’, espressione usata quando si ha a che fare con qualche attaccabrighe. Chi sia l’attaccabrighe, stavolta, non è chiaro: forse la vita, forse il tempo che passa, forse certe questioni sociali che sembrano tutt’altro che migliorare.

Fatto sta che il primo degli undici pezzi che compongono il disco è abbastanza traumatico: Ready To Go Home è una sorta di messaggio al Padreterno: “OK, sono pronto: vediamo che succede”; si prende subito di petto la ‘questione delle questioni’, insomma, ma lo si fa a modo proprio, con un brano trascinante all’insegna di sonorità che sembrano prese di peso da una pellicola black exploitation, un modo sarcastico e gioioso per prendersi gioco del tempo che passa, in cui Gillespie riversa la propria passionaccia per certe sonorità degli anni ’60 e ’70.

Suoni che poi ritorneranno, ciclicamente, lungo tutto il disco, perché se c’è una cosa che l’età ti può permettere è di fare ciò che ti pare, anche più di quanto avvenisse in passato.
Chitarre a tratti urticanti, battiti da dancefloor, momenti (tanti) in cui le cadenze si fanno lente e la riflessione, anche dolente, prende il sopravvento. Si gioca più di una volta su questo contrasto tra la profondità del pensiero e l’apparente leggerezza dei suoni, anche se il tono del disco si fa progressivamente autunnale, a tratti plumbeo, in un alternarsi tra esistenzialismo e questioni sociali.

Love Insurrection (cui partecipa, in un monologo finale, la nostra Anna Caragnano), invoca, appunto, una ‘insurrezione dei sentimenti’ come unico appiglio in tempi in cui complottismi e analfabetismo stanno prendendo il sopravvento; in Heal Yourself si parla dell’importanza dell’amore per la vita, di trovare qualcuno con cui costruire qualcosa, da avere al fianco nell’avanzare del percorso (anche qui l’ottica anagrafica ha un suo peso), e in False Flags il trauma sociale della chiusura delle miniere degli anni ’80 trova un ricongiungimento con le tensioni etniche dei tempi attuali.

A inquadrare i tempi più che mai oscuri in cui viviamo è però soprattutto un trittico finale – Deep Dark Waters, The Centre Cannot Hold e la conclusiva Settlers Blues, di oltre nove miniuti.
A proposito: a pesare sull’ascolto è la lunghezza un po’ eccessiva di certi brani, ma forse in tempi in cui si scende sempre più spesso sotto ai tre minuti, è sacrosanto che ci sia ancora qualcuno che si prenda tutto il tempo per dire e suonare ciò che vuole.

Lungo l’ultima parte del disco viene rievocata tra l’altro la questione mai superata (e anzi, destinata a rinnovarsi) del colonialismo (britannico e non solo) e si osserva una realtà fatta di rapporti umani in cui nessuno conosce più veramente nessuno e conta solo ciò che si ha da mostrare.

Uno sguardo pessimista, che – non a caso, probabilmente – Gillespie condivide col suo coetaneo Matt Johnson alias The The, anche lui tornato qualche mese fa dopo un lungo silenzio.

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Marcello Berlich
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