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Mercury Rev: recensione di Born Horses

Born Horses è il capolavoro dei Mercury Rev che non vorrei ascoltare mai più.

Mercury Rev

Born Horses

(Bella Union)

dream pop

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Sono passati due mesi dall’uscita di Born Horses dei Mercury Rev.
Perché tanto tempo prima di dire la mia sull’ultima fatica del gruppo di Buffalo?
Motivi ce ne sarebbero, il primo dei quali è certamente la sensazione di non aver capito il senso dell’opera.

Ogni promessa, però, è debito e quindi torno volentieri sul luogo del delitto: Born Horses mi ha perplesso al primo ascolto, annoiato al secondo e col cuore pesante devo ammettere che, anche a distanza di settimane, la voglia di ascoltare l’album dalla prima all’ultima nota non mi assale, per usare un eufemismo!

Non si deve sempre parlare bene di un prodotto e non sarebbe giusto liquidare il lavoro di una band tanto importante con un’alzata di spalle. Sin dalle prime note, Born Horses potrebbe essere uno di quei dischi che ti cattura. Potrebbe.

L’atmosfera jazzy, fumosa e notturna di Mood Swings è qualcosa di totalmente alieno nel panorama alternative contemporaneo. La voce di Jonathan Donahue è appena un sussurro: lui recita, piuttosto che cantare. Indubbiamente la pressoché totale mancanza di melodia nelle voci rock degli ultimi anni è ormai quasi una costante.

È giusto fermarsi, sedersi, ascoltare, anche per capire in che direzione la band stia andando. Anche se ormai sei al terzo, estenuante, tentativo.

Ancient Love ha uno splendido arrangiamento. La voce di Jonathan Donahue è appena un sussurro: egli recita, piuttosto che cantare.

Your Hammer, My Heart è perfetta per una giornata di pioggia. L’orchestrazione è sontuosa, lussureggiante. La voce di Jonathan Donahue è appena un sussurro. Più che cantare, Jonathan recita.

Patterns, ironicamente, ripete lo stesso… pattern! ovvero: la voce di Jonathan Donahue è appena un sussurro e il nostro amico recita, piuttosto che cantare.

A Bird Of No Address non ti concede nemmeno un secondo per godere degli splendi arrangiamenti che entra la voce di Jonathan Donahue che è appena un sussurro. Una recita, piuttosto che un canto. Anche se, in tutta onestà, qui un accenno di melodia c’è…

Di nuovo, sembra ci sia un’involontaria ironia quando sull’apertura il testo recita “Oh, from now on I’ll fly on”.

Born Horses ha un inizio epico che un po’ ricorda il Nick Cave di Murder Ballads. La voce di Jonathan Donahue è appena un sussurro, di cantare non se ne parla proprio, ma è il brano più convincente, sinora. Il solo di sax a metà della canzone scalda il cuore.

Le parti di Everything I Thought I Had Lost che si lasciano preferire sono le progressioni strumentali sul filo dell’improvvisazione. In altre parole, là dove la voce di Jonathan Donahue, che è appena un sussurro, non recita-piuttosto che cantare.

Siamo alla fine e-udite udite-il mood cambia davvero e There’s Always Been A Bird In Me parte in quarta (almeno rispetto all’atmosfera generale dell’album), tanto che le prime battute potrebbero essere quelle di un potente inno power-pop anni ’80. Un surreale, distopico mix tra Cock Robin e…Current 93! Sì, perché la voce di Jonathan Donahue – appena un sussurro – recita piuttosto che cantare.

Concludendo, come recitava qualcuno-che non credo abbia mai cantato una sola nota in vita sua- Born Horses è un disco che vorrei amare, magari anche alla folia, perché sento di doverlo in gran parte alla storia del gruppo, e al grandissimo lavoro sugli arrangiamenti fatto da-è dato supporre-da Sean “Grasshoper” Mackowiak, ma è davvero dura. Quasi ti viene da dire “Born Horses è il capolavoro dei Mercury Rev che non vorrei ascoltare mai più.” Non me ne vorranno. Non me ne vogliate. Non voglio.

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