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Tim Bowness: recensione di Powder Dry

Tim Bowness, più noto per il progetto No-Man, torna con Powder Dry, tra post-punk e suggestioni floydiane.

Tim Bowness

Powder Dry

(Kscope)

art-pop

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Quello di Tim Bowness è uno di quegli strani casi che ogni tanto succede di incrociare, conosciuto per lo più come ‘quello dei No-Man‘, progetto portato avanti assieme a Steven Wilson, ‘quello dei Porcupine Tree‘.

In realtà il cantante e musicista inglese ha condotto a partire dagli anni ’00 una carriera solista di tutto rispetto, almeno quantitativamente.

Powder Dry ne è infatti l’ottavo capitolo e prima collaborazione con l’etichetta Kscope, un lavoro in cui si rinnova anche il sodalizio con lo stesso Wilson, qui intervenuto in fase di missaggio.

Sedici i pezzi, inclusi due strumentali, una quarantina di minuti la durata, e l’impressione che la diffusa tendenza alla progressiva riduzione della durata dei pezzi abbia influenzato anche il musicista inglese.

Piccolo è bello? Forse. Tuttavia, di fronte a brani che mediamente faticano a raggiungere i due minuti e mezzo di durata, in più di un caso nemmeno raggiungendo i due, si avverte un certo senso di incompiutezza. A Stand Up For The Dying unico caso in cui si sfiorano i cinque minuti.

Tanti spunti, sonori e ‘ideali’, che però appunto spunti tendono a restare, come fuochi d’artificio destinati a rimanere inesplosi.

L’idea magari di non tirarla troppo per le lunghe, limitandosi all’essenziale, che si risolve spesso (a volte, purtroppo) in degli abbozzi.

Una certa varietà di climi e atmosfere, che vanno da suggestioni riconducibili agli ampi panorami di new wave e post-punk, non tirandosi indietro, in alcuni episodi, davanti a ritmi incalzanti o abrasioni ai confini del noise (come nella title track), fino ad atmosfere compassate, dilatate, con più di un’eco floydiana.

Uno sguardo caustico sul presente – Rock Hudson (singolo che ha anticipato l’uscita del disco) è un’osservazione sarcastica delle dinamiche dei ‘social’ –  si affianca ad analisi interiori che portano a giudizi abbastanza pessimisti: si parla di diventare ciò che da giovani si sarebbe combattuto, di storie d’amore perse, di occasioni sentimentali mancate.

Un lavoro che in più di un’occasione lascia l’idea di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.

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Marcello Berlich
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